Ogni anno, nei giorni di Carnevale, i social si riempiono di inquietanti citazioni attribuire a santi anche molto famosi, vissuti nei primi secoli dell’età moderna. Con parole fermissime, questi campioni della Chiesa condannano senza mezze misure le dissolutezze del Carnevale, guardando alle mascherate del Martedì Grasso come a un qualcosa di gravemente peccaminoso e sanzionando con pene durissime quei fedeli che hanno osato prendervi parte.
Sono toni che mettono a disagio, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, sono toni che fanno cascar le braccia: ma come, adesso dobbiamo rinunciare pure alle feste di Carnevale? I santi del Paradiso stanno guardando storto i nostri figli che se ne vanno in giro coi loro costumini da cowboy e principessa?
Beh: no, naturalmente.
È certamente vero che, nella prima età moderna, molti santi condannarono con durezza le feste di Carnevale… ma la loro posizione andrebbe contestualizzata in un quadro più ampio. Ai loro tempi, il Carnevale aveva ben poco a che vedere con le allegre festicciole per famiglie dei nostri giorni, con bambini mascherati che si ritrovano dopo la scuola per gustare in compagnia frappole e frittelle.
Nella prima età moderna, il Carnevale era essenzialmente una festa per adulti, licenziosa e libertina. Nel 1576, san Carlo Borromeo la criticava per «le spese disordinate, le risse, le questioni; gli homicidii, le lascivie, le disonestà, le mostruose pazzie e dissolutezze»: non esattamente quel tipo di immagini che ci verrebbe in mente di associare al Carnevale dei bimbetti. E, soprendentemente, non esagerava affatto nell’usare questi toni: il Carnevale di una volta era molto più selvaggio di quanto immagineremmo!
Una volta, il Carnevale non finiva necessariamente a Carnevale
Riuscireste a concepire un Carnevale che si protrae oltre il Mercoledì delle Ceneri, spingendo la gente a gozzovigliare nel bel mezzo della Quaresima? Difficile immaginare qualcosa del genere nella nostra ordinata società contemporanea (!), nella quale persino i supermercati s’affrettano a togliere le frappole dagli scaffali dopo il Martedì Grasso; ma (incredibile ma vero!), i nostri trisavoli erano molto meno ligi di noi, su questo punto.
Da Nord a Sud, l’Italia era piena di Carnevali tardivi che, secondo la tradizione locale, si tenevano ben oltre il Mercoledì delle Ceneri, nella prima (o addirittura seconda) domenica di Quaresima; e ancor oggi, in alcune zone del Belgio, la domenica Laetare è occasione per allegre sfilate in maschera.
Naturalmente, la Chiesa non vedeva di buon occhio queste manifestazioni, che portavano scherzi e gozzoviglie in quello che avrebbe dovuto essere il periodo penitenziale per eccellenza. E il fatto che una certa fetta di popolazione s’ostinasse a festeggiare nonostante le reprimende non faceva altro che rendere ancor più aspri i toni di condanna: inevitabile, del resto!
Una volta, a Carnevale, la gente rischiava di farsi seriamente male
In epoche molto più violente della nostra, capitava con frequenza che i passatempi di Carnevale includessero attività che oggi definiremmo “giochi pericolosi” a voler usare un eufemismo. A Firenze, gruppi di giovinastri avevano l’abitudine di salire sul ponte di Santa Trinità per prendere a sassate gli inermi passanti. A Venezia, ci si divertiva un sacco a darsi scazzottate lungo il ponte di San Barnaba, non a caso definito popolarmente “dei Pugni”. A Pisa, la rivalità tra contrade prendeva corpo sul ponte di Mezzo, dove bande di ragazzi facevano a botte in un clima che aveva ben poco di scherzoso; nel 1807, questo gioco di dubbio gusto fu vietato per legge da Maria Luisa di Borbone, che commentò il Carnevale pisano con parole destinate a passare alla storia: per essere un passatempo, era decisamente troppo violento; per essere un regolamento di conti tra gang criminali, lo era forse un po’ troppo poco.
Una volta, a Carnevale, gli sprechi alimentari erano francamente intollerabili
In molte lingue straniere, i coriandoli di Carnevale si chiamano “confetti”. Non è un caso: nei primi secoli dell’età moderna, a essere lanciati addosso ai passanti erano dei letterali confetti, in tutto e per tutto identici a quelli che oggi noi distribuiamo nelle bomboniere; e chi non poteva permettersi quei costosi dolci zuccherini si rassegnava a colpire i passanti con altre tipologie di cibo (ivi comprese le uova marce).
Un’eco di questa tradizione (evidente auspicio di prosperità) vive ancor oggi in certe feste nuziali, laddove gli sposi escono dalla chiesa sotto una gragnuola di chicchi di riso: e, non a caso, un crescente numero di coppie preferisce trovare alternative meno invasive con cui declinare questo momento, che sporca inutilmente il sagrato della chiesa, macchia di amido il vestito scuro dello sposo e comunque pare indelicato in un’epoca in cui si è così giustamente attenti agli sprechi alimentari.
A maggior ragione, le stesse considerazioni valevano nei primi secoli dell’età moderna, quando le gozzoviglie carnascialesche sembravano un intollerabile affronto nei confronti di quei concittadini che davvero facevano la fame. Come se non bastasse, capitava con frequenza che le famiglie benestanti organizzassero nei loro saloni delle grandiose abbuffate che realmente si concludevano con chili e chili di cibo sprecato (o buttato addosso ai passanti, per l’appunto): non sarebbe stato meglio dedicare a opere di carità tutta quella ostentata munificenza?, si domandavano i prelati scuotendo la testa.
Una volta, a Carnevale, i festeggiamenti erano davvero esagerati
«Bisogna averlo visto almeno una volta, il Carnevale romano, per perdere del tutto la voglia di rivederlo» commentava con palpabile shock il povero Goethe, dopo aver avuto modo di soggiornare a Roma negli ultimi giorni prima della Quaresima.
Francamente sconcertanti, le scene che l’autore ci descrive nel suo Das römische Carneval. L’intellettuale ci parla di uova e gessetti lanciati a centinaia dall’alto dei palazzi, mirando direttamente alla testa dei passanti; uomini che s’aggirano per strada vestiti da donna, come antesignani delle nostre drag queen; individui mascherati «petulanti, laidi, appiccicosi, che importunano gli astanti in borghese con ogni genere di fastidiose lepidezze». Cita persino un tale che (tenetevi forte) se ne andava in giro con un corno tra le gambe, agitandolo tutte le volte che incrociava per strada una bella donna: «ognuno può fare il pazzo a modo suo e, ad eccezione delle bastonate e delle pugnalate, quasi tutto è permesso» commentava Goethe, scuotendo il capo. E aggiungendo che, come se non bastasse, chi veniva preso di mira dai festaioli avrebbe fatto meglio a stare al gioco o comunque a non lamentarsi troppo, visto che le guardie avevano l’ordine di proteggere le maschere dalle possibili reazioni violente dei passanti.
Onestamente, stando così le cose, chi è che non considererebbe peccaminosi e degradanti certi tipi di “divertimento”?
Ma esisteva anche un Carnevale dignitoso
Ma era questo l’unico modo con cui i nostri antenati avevano l’abitudine di festeggiare il Carnevale?
A onor del vero, questo era il modo prevalente: le alternative “a misura di famiglia” erano molto scarse; e tuttavia, ne esisteva qualcuna. Mentre i vescovi e gli educatori si scagliavano contro il malcostume, sanzionando il Carnevale in toto e senza appello, alcuni papi si diedero da fare per offrire al popolo romano delle alternative un po’ meno licenziose: Ferdinand Gregorovius, storico tedesco famoso per i suoi studi sulla Roma medievale, sottolinea per esempio che papa Paolo II «con ispirito di mondanità permise che feste carnevalesche si celebrassero, con cortei bacchici, con rappresentazioni mitologiche di numi, di eroi, di ninfe, di genii».
Evidentemente, il pontefice era dell’idea che il miglior modo per evitare gli eccessi di Carnevale non fosse sanzionare in toto una ricorrenza molto amata (che comunque la gente avrebbe continuato a festeggiare in ogni caso, in barba alle prediche dei moralisti). Molto più efficace la decisione di trovare un modo intelligente per reinterpretare la festa, allontanandola dagli eccessi: o, quantomeno, sembra esser questa la lezione che papa Paolo II volle darci.
Certo: essere il re di Roma è un’agevolazione non da poco quando si tratta di dover decidere quale tono imprimere alle attività che si tengono entro i confini cittadini. Altrove, i parroci, i vescovi e gli educatori si ritrovarono ad assistere inermi ai festeggiamenti di dubbio gusto che venivano organizzati dalle municipalità, e si videro costretti a combatterli col solo uso della parola; e fu dunque un profluvio di omelie infuocate, di condanne fermissime e di critiche senza appello.
Ma se i loro toni così duri avessero mandato in crisi qualcuno di noi: beh, direi che non c’è motivo di preoccuparsi troppo. Dopo questa desolante rassegna di feste di dubbio gusto, dovrebbe essere ben chiaro che il Carnevale criticato dai santi non era esattamente quello che festeggiano i bimbi d’oggi, tra un costume da principessa e una scorpacciata di frittelle.