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Che cosa ne sarà, dopo Ratzinger, dell’istituto del “papato emerito”

Zmarł papież Benedykt XVI
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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 11/02/23
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A 10 anni dalla declaratio con cui Benedetto XVI rinunciò al ministero petrino, proponiamo un excursus storico-canonistico.

Dieci anni fa, come un fulmine a ciel sereno (o quasi), Benedetto XVI annunciò al mondo le proprie dimissioni, che sarebbero state effettive dalle ore 20 della fine di quel mese di febbraio (diventato all’improvviso stranamente lungo, malgrado i suoi soliti 28 giorni).

Per soli due mesi, il pontefice più longevo della storia non ha aggiunto all’albo dei suoi record anche un decennio di “papato emerito”, dopo averne forgiato l’istituto. Pur mancando la cifra tonda, è indiscutibile che la quasi-decennale esperienza di Benedetto XVI fuori dal Palazzo Apostolico (ma pur sempre “nel recinto di San Pietro”) abbia costituito un fenomeno ancora in larghissima parte da elaborare e metabolizzare, sul piano canonistico ed ecclesiale.

I “sedeimpeditisti” che non vollero diventare sedevacantisti

Dieci anni fa Marco Politi scrisse in un libro che Benedetto scelse la via delle dimissioni per «azzerare una Curia diventata ingovernabile»; analogamente, pure morendo Benedetto XVI ha azzerato qualcosa: se non altro le vestigia della propria corte (ogni Papa ne ha una – è fatale), i cui epigoni si eclissano con più o meno elegante rapidità; e più diffusamente quell’aria di derby che nel corso del decennio si era sviluppata («io sono di Francesco, e io di Benedetto» – cf. 1Cor 1,12).

Alcuni segmenti di quegli ambienti si erano pure investiti dell’alto compito di tutelare la Santa Sede nella “tremenda” situazione che si era venuta a creare: distinguendosi dai banali sedevacantisti (dal momento che ritenevano valida l’elezione di Benedetto XVI ma invalida – per ragioni di cui parleranno col loro psichiatra – la sua rinuncia), pretendevano che la Prima Sede fosse impedita (per una stramba analogia col can. 412 del CIC). Al momento del trapasso di Benedetto XVI, tuttavia, costoro hanno preso atto del decesso – ma mica tutti, eh! In quelle ore si è sentito di tutto: da “l’hanno ammazzato!” a “non è lui, è un pupazzo!” – e si sono trovati ad un bivio: diventare sedevacantisti o trovare un escamotage per piantarla con la farsa. I più hanno optato per la seconda scelta, e a prezzo di una ulteriore pagliacciata (un conclave in cui “hanno eletto” Papa il cardinal Bergoglio!) sono ricaduti nel silenzio.

In questa circostanza vorremmo però provare a raccattare qualche elemento meno aleatorio degli altri, dalle trascorse farneticazioni di costoro, e a “farne tesoro” (nei limiti del possibile) per l’avvenire.

Confutazione schematica dei “sedeimpeditisti” 

Dissero dunque alcuni fra costoro che: 

  1. gli errori nella Declaratio di Benedetto XVI avrebbero reso la stessa invalida; 
  2. anche perché essa non sarebbe mai stata ratificata; 
  3. l’elezione di papa Francesco sarebbe poi stata nulla a causa del disposto della Universi Dominici Gregis di Giovanni Paolo II, per via degli accordi presi da alcuni cardinali raccordati – secondo l’espressione di uno fra loro – nella “mafia di San Gallo”. 

Alla prima obiezione si deve ribattere che né il Can. 332 dell’attuale Codice di Diritto Canonico né mai alcun canonista ha annoverato tra le possibili cause di invalidità i refusi di battitura (come è il caso per “le ore 29” in luogo de “le ore 20”) o per gli errori ortografici (come è il caso per la confusione tra il dativo “commisso” e l’accusativo “commissum”). Ce n’è di che gettare un’ombra sulla capacità di scrivere in un latino corretto, al giorno d’oggi, perfino ai massimi vertici della gerarchia ecclesiastica (e tra i più eccelsi intellettuali del momento), ma questo verte semmai sulla decadenza della cultura in generale, non su quella di un Papa dall’ufficio petrino. 

Alla seconda balza invece agli occhi l’ignoranza (e/o la malafede) di chi propugnava l’argomento, perché il § 2 del già ricordato Can. 332 precisa appunto – ed è una delle caratteristiche del dispositivo canonico – che per la validità della rinuncia al ministero pontificio «[…] non si richiede invece che qualcuno la accetti». 

Quanto alla Costituzione Apostolica invocata nel terzo punto, rimandiamo i lettori ai suoi numeri 81 e 82, che contengono il dispositivo invocato dai contestatori: 

I Cardinali elettori si astengano, inoltre, da ogni forma di patteggiamenti, accordi, promesse od altri impegni di qualsiasi genere, che li possano costringere a dare o a negare il voto ad uno o ad alcuni. Se ciò in realtà fosse fatto, sia pure sotto giuramento, decreto che tale impegno sia nullo e invalido e che nessuno sia tenuto ad osservarlo; e fin d'ora commino la scomunica latae sententiae ai trasgressori di tale divieto. Non intendo, tuttavia, proibire che durante la Sede Vacante ci possano essere scambi di idee circa l'elezione.

Parimenti, vieto ai Cardinali di fare, prima dell'elezione, capitolazioni, ossia di prendere impegni di comune accordo, obbligandosi ad attuarli nel caso che uno di loro sia elevato al Pontificato. Anche queste promesse, qualora in realtà fossero fatte, sia pure sotto giuramento, le dichiaro nulle e invalide. 

Come si vede, Giovanni Paolo II non dichiarava invalide le elezioni eventualmente seguite a tali accordi – e il Pontefice si premurava di precisare che non bisogna intendere per tali accordi tutte le occasioni opportune e necessarie per «scambi di idee circa l’elezione» – ma le promesse stesse: dice cioè che i cardinali (e il futuro Papa) non sono vincolati agli impegni a cui si impegnassero in quelle riunioni. 

Già questo basterebbe ad abbattere l’obiezione, ma quando si sente qualcuno dei personaggi di cui sopra affermare che il tale cardinale avrebbe detto (o addirittura scritto!) di aver fatto pressioni perché Benedetto XVI si dimettesse – il che sarebbe questione completamente altra rispetto agli accordi per l’elezione di Bergoglio al soglio pontificio –… lì la questione si fa invece interessante: se ci fossero state pressioni, infatti, la rinuncia di Papa Ratzinger non sarebbe stata libera, e dunque effettivamente essa sarebbe invalida (e sicuramente Benedetto XVI sarebbe ancora il Papa). Ora, però, per dire questo bisognerebbe sostanziare l’accusa di una prova adeguata: dicono che quel cardinale l’abbia detto? Dov’è la registrazione? Ha avuto addirittura l’ardire di scriverlo? Tanto meglio: sarà più facile ancora citare la pagina e smascherare l’impostura. Dov’è questa pagina? 

Ma quella pagina non esiste, anzitutto perché se mai qualcuno fosse stato tanto audace da indurre Benedetto XVI alla rinuncia, quello stesso non sarebbe stato anche tanto ingenuamente vanesio dal vantarsene pubblicamente; e poi perché Benedetto XVI non era tipo da cedere a pressioni, lusinghe e minacce (chissà perché, invece, in certe frange parascismatiche ci si accaniva a proclamarlo Papa e contemporaneamente a descriverlo come un debole). 

Ma con questo siamo noi a fermarci, quanto alla confutazione dei suddetti sofismi: alcuni tra i loro scrivani si sono spinti a dire che “se Benedetto XVI non interviene a smentirci è perché abbiamo ragione”; fino a questo punto si aveva a che fare con comuni tavolini delle tre carte, ma qui si è arrivati all’ordalia dialettica (se intervieni mi legittimi a tuo interlocutore; se non intervieni lo prendo come un “hai ragione, meno male che ci sei tu a capire che non posso parlare”). Benedetto XVI è intervenuto, e a più riprese, ma i tosatori di certi circoletti asfittici hanno buon gioco sul fatto che in essi si legga poco (e si ricordi ancora meno). Ripartiamo da una di quelle dichiarazioni di Benedetto XVI per dare un colpo d’ala al tema e tornare «a riveder le stelle»: 

Non c’è il minimo dubbio circa la validità della mia rinuncia al ministero petrino. Unica condizione della validità è la piena libertà della decisione. Speculazioni circa la invalidità della rinuncia sono semplicemente assurde. 

Il precedente celestiniano e la creatività ratzingeriana nel seguirlo 

Quanti hanno sospettato che Benedetto XVI non fosse stato libero nel prendere la propria decisione (e/o vogliono trarre vantaggi dalla coltivazione di tali sospetti) non hanno fatto in realtà alcunché di nuovo, né di originale. Già nell’ultimo quarto del XIV secolo (ossia meno di un secolo dopo i fatti di Celestino V), un novelliere toscano consegnò alla storia della letteratura la leggenda di Bonifacio VIII – a sua volta già consegnato alla storia, e anzi all’inferno, come papa anticristico – che macchinosamente “ispira” al proprio riluttante predecessore “il gran rifiuto”.

È “suor Saturnina” la maschera letteraria che che racconta – seconda novella del giorno terzodercimo – di come «messer Benedetto Gaietani d’Alagna […], il quale aveva gran volontà di pervenire alla dignità papale», 

si mise innanzi al Papa, sentendo che egli aveva voglia di rinunziare il papato, e consigliollo che egli facesse un decreto, che per utile dell’anima sua ogni Papa potesse rinunziare il papato. […] 

Vero è che molti dicono che il detto Cardinale gli venne una notte segretamente con una tromba a capo al letto, e chiamollo tre volte; ove Papa Celestino rispose e disse: «Chi sei tu?». Rispose quel dalla tromba: «Io sono l’Angel da Iddio mandato a te come suo divoto servo, e da parte sua ti dico che tu abbia più cara l’anima tua che le pompe di questo mondo»; e subito si partì. Di che Papa Celestino non restò ch’egli rinunziò, e poi si partì di Corte, e tornossi a essere romito e a fare le sue penitenzie; e così stette nel papato questo Papa Celestino cinque mesi e otto dì. 

Il passo è interessante da più punti di vista, soprattutto perché (eccezion fatta per l’invenzione dell’espediente scenico e per la macchiettizzazione dei personaggi) è notevole la precisione storica dei dati riportati, e la piacevolezza dello scritto ci aiuterà a ritenerli. Purtroppo la storia non ci ha conservato (o forse esso giace ancora non inventariato in qualche biblioteca) il testo della declaratio di Celestino V, che pure dovrebbe essere stato prodotto, e questo ci impedisce di formulare un giudizio più circostanziato; si deve però registrare che i giudizi storici sul gesto di Pier Celestino hanno insistito molto sul “ripiego intimistico” del Pontefice. Alla severità di Dante si è aggiunto lo scherno canzonatorio del Fiorentino, ma pure Torquato Tasso avrebbe riservato una stilettata sprezzante alla scelta di Celestino – è importante capire per quale ragione: 

Celestino V, conoscendosi inetto al governo del mondo cristiano, e non potente a santificarsi di santità pontificia, rinunziò il papato, e, datosi ad una santità privata, meritò d’esser da Clemente V canonizzato sotto nome non di pontefice, ma di Pietro Confessore. Ed infiniti altri ci sono stati che hanno rinunciato le corone ed i scettri; perchè è paruto loro di poter giustificarsi appresso Dio con le virtù private e non con le regie. 

Nel 1585 Francesco di Sales aveva appena 18 anni ed era ancora studente di diritto, e la sua celebre Filotea sarebbe stata data alle stampe 25 anni dopo (1608), ma sembra di poter vedere qui anticipata quella distinzione tra la santità dei membri della Chiesa in funzione del loro ufficio, del loro ruolo (idea che si radica in fondo nella Politica di Aristotele, espressamente richiamata dal Tasso poche righe sopra); quella stessa distinzione, dicevamo, che avrebbe impreziosito alcune delle sue più celebri pagine. Nel 2016 Valerio Gigliotti ha proposto, dopo aver navigato analiticamente tra queste ed altre fonti, una sintesi molto apprezzabile della declaratio di Benedetto XVI. Dopo aver osservato che Ratzinger si è riferito parimenti alla debolezza personale e al bene universale della Chiesa, Gigliotti aggiunge: 

Si è già ricordato come proprio San Cipriano in uno dei primissimi interventi sul tema, avesse richiamato come causa di rinuncia la necessitas vel utilitas Ecclesiæ, poi ripresa da | parte del decretista Uguccione da Pisa nel XIII secolo in una glossa al Decretum di Graziano. L’ultima parte della dichiarazione ritorna al modello tradizionale e consolidato dell’appello diretto ai cardinali, utilizzato da Celestino V, ma con un contenuto nuovo: il ringraziamento per la condivisione dell’onere del ministero e una richiesta di perdono per i propri “difetti”, che richiama molto da vicino la renuntiatio di San Francesco d’Assisi, da cui Benedetto XVI invoca anche l’invocazione a Cristo e a Maria affinché assistano i cardinali nell’elezione del nuovo papa (laddove San Francesco invocava la benedizione di Dio sui propri confratelli). 

Perché la rinuncia sia valida, stando alla dottrina stabilita a partire da Celestino V e consolidatasi con Benedetto XVI, è necessario solo che essa sia libera e debitamente espressa, cioè “comunicata”, notificata. E a chi la si deve comunicare? Perlomeno a tutti quelli che hanno un interesse legittimo nel sapere chi sia il Papa, ovvero tutti i cattolici. Essendo impossibile convocare tutti i cattolici in un unico luogo e in un unico momento, alla dottrina (che di per sé si accontenterebbe di due testimoni soltanto) si è affiancata la scelta di testimoni qualificati

Sia nel caso di Celestino V sia nel caso di Benedetto XVI, lo si è visto, la scelta è ricaduta su membri del collegio cardinalizio, i quali più degli altri cattolici hanno un interesse legittimo (e in un certo senso un diritto) a sapere chi sia il Papa: spetta a loro, infatti, provvedere a nuove e legittime elezioni pontificie.

Fermiamoci un istante, prima di proseguire con la questione dell’oggetto effettivo della rinuncia, e chiediamoci perché il Papa debba soltanto notificare la propria libera decisione, senza che questa possa/debba essere accolta/accettata/ratificata da alcuno. 

Ancora oggi, infatti, la dottrina giurisprudenziale si dibatte tra due principî ugualmente attestati, nella storia del diritto canonico, fin dai tempi di Celestino V: 

  • il primo è quello del “difetto di superiore gerarchico”. Le dimissioni le presenti a un tuo superiore o comunque a un organo parallelo dal quale dipende la loro effettività, «ma poiché il Papa non ha alcun superiore – scriveva Egidio Romano nel suo De renuntiatione papæ –, tutto sta in mano a lui»; 
  • il secondo, a cui in antico si è rifatto anche il canonista Jean Quidort, è il riferimento finale all’utilità e al maggior bene della Chiesa. Già Bernardo di Chiaravalle aveva consegnato alla canonistica medievale la formula degli antichi canoni “præesse ut prodesse” (si viene costituiti capi per giovare al bene dei sottoposti, dunque se non si può o non si sa giovare è lecito rinunciare all’incarico ricevuto).

È curioso che per certi autori questi due principî continuino ad essere percepiti, se non antitetici, quasi reciprocamente esclusivi per le rispettive premesse concettuali: 

  • nel primo si vuole infatti ravvisare una forte rivendicazione della potestas absoluta del Papa, che fa e disfa come vuole senza dover rendere conto a nessuno; 
  • nel secondo si individua piuttosto l’attestazione della responsabilità collegiale del Papa, il quale al limite appare come un AD societario che rende conto al CDA e trae le debite conseguenze. 

Alla maggioranza dei giuristi, tuttavia, questi due principî – presi evidentemente nelle loro formulazioni proprie e non nelle loro derive estreme – appaiono perfettamente conciliabili, e anzi capaci di sostenersi ed equilibrarsi a vicenda.

Munus e ministerium: espressioni “non adeguatamente distinguibili” 

Una volta che si sia accettato il fatto che perfino un papa possa rinunciare a… fare quel che gli è stato chiesto di fare… ci si può giustamente chiedere che cosa sia ciò a cui rinuncia. È stato infatti osservato da parte di alcuni (non sempre canonisti) che altro sarebbe rinunciare al ministerium, altro rinunciare al munus petrino, e che per questo si avrebbe una forma di “latenza” di Benedetto XVI nel papato. Prima di condurre questo tratto di indagine converrà ricapitolare alcuni elementi storici fondamentali in merito alla primazia ecclesiale ed ecclesiastica: 

  • un primato ecclesiale/ecclesiastico esiste da sempre, e lo si trova sibillinamente (ma chiaramente) accennato sia nel riferimento paolino alle “colonne della Chiesa” (Gal 2) e al confronto personale con Pietro (Gal 3), sia nel loghion gesuano di Mt 16 sia nella strutturazione degli Atti degli Apostoli come “romanzo di Pietro e Paolo”; 
  • in epoca subapostolica abbiano perlomeno il ricorso della Chiesa di Corinto all’arbitrato della Chiesa di Roma, testimoniato dalla risposta che questa redasse per mano di Clemente. Bisogna però riconoscere che fino a Vittore, un secolo dopo, Roma non sembra conoscere un vero e proprio episcopato monarchico (la primazia romana è qualcosa di certo e di indiscutibile in sé, ma non sembrano darsi elementi di individuazione di un episcopato romano tanto antico – lo stesso Ignazio d’Antiochia sa i nomi dei vescovi di tutte le Chiese a cui scrive… tranne quello della Chiesa di Roma, a cui dedica l’elogio più sperticato); 
  • all’epoca di Vittore, invece, Ireneo raccoglie e tramanda l’elenco dei vescovi di Roma, da Pietro a Vittore (Clemente sarebbe stato, fra l’altro, il primo rinunciatario – in favore di Lino, secondo una tradizione accreditata in epoca celestiniana), ma lo fa per indicare la radice apostolica delle chiese cattoliche, e in particolare di quella «che tra tutte è indiscutibilmente la più grande e la più antica» (ossia quella di Roma); 
  • è “solo” a partire dal IV secolo che il primato romano, fino a quel punto indiscutibilmente attestato ma non declinato in forma di papato, comincia a declinare l’ormai acquisita forma episcopale nei termini di “primato petrino”. Ci troviamo sotto Damaso, e sotto questo pontificato Teodosio canonizzò come religione imperiale «la fede trasmessa da Pietro ai Romani, e che conservano Damaso a Roma e Pietro ad Alessandria». Era dal 325 che, sul piano ecclesiastico-amministrativo, si cominciavano a elencare delle chiese preminenti, nel 381 Costantinopoli avrebbe cominciato a pretendere di contendere il primato a Roma (come se questo dipendesse dall’essere capitale imperiale – fantasia mai sentita prima di allora): il IV secolo è insomma epoca di cambiamenti importanti; 
  • tra V e VI secolo, pensiamo ai pontificati di Leone e Gregorio (non a caso entrambi qualificati di “Magno”), il primato romano è stato riconosciuto come primato petrino e coincide in tutto col primato papale – tanto che di Leone si dice che «Pietro parla per bocca sua», e Gregorio si permette di mandare missioni in Britannia scavalcando il primate delle Gallie in forza del suo ufficio universale. 

Questi brevissimi elementi, per forza di cose solo accennati, devono aiutare nella presente sede a comprendere perché molti canonisti giudichino mal posta la questione di come distinguere nel Papa tra l’ufficio primaziale e quello di Vescovo romano. Lo ha illustrato con molta chiarezza, anche glossando Paolo Moneta, il giovane ricercatore di Diritto Ecclesiastico (Università di Pisa) Luigi Guzzo: 

[…] [I]l Papa è tale | perché vescovo di Roma, vale a dire [che] l’essere a capo della chiesa particolare di Roma non è un “incarico aggiuntivo” o un “titolo meramente onorifico”, bensì una «qualifica inscindibilmente connessa con la prima: egli è capo della Chiesa universale in quanto vescovo di Roma ed è dall’investitura nel governo di questa Chiesa particolare che deriva inscindibilmente l’investitura al governo di tutti i fedeli». In tal senso, l’essere vescovo di Roma è la “causa efficiente” del papato. 

Distinguere dunque è possibile, sì, ma non al fine di pretendere che si possa assumere l’ufficio petrino senza aver assunto il governo della diocesi di Roma, o viceversa. Ciò detto, possiamo finalmente rivolgerci alla questione della presunta scindibilità fra “munus” e “ministerium”, relativamente alla vocazione e all’ufficio petrini. Malgrado siano state proposte argomentazioni talvolta molto astratte, talvolta più documentate, la divaricazione è in questo caso ancora meno praticabile che nel precedente (laddove almeno aveva un senso). Lo ricorda Geraldina Boni, ordinario di Diritto Canonico a Bologna (che pure non fa mistero di non essere entusiasta dei problemi canonistici posti dalla rinuncia di Benedetto XVI – e ancor meno di alcune delle soluzioni proposte): 

Invero, come esordisce il cardinale Péter Erdö, autorevolissimo canonista e storico del diritto, in un saggio […]: «Ministerium, munus e officium sono vocaboli in non piccola misura sinonimici» [proponiamo una traduzione nostra dal latino del cardinale, N.d.R.], sinonimi tra l’altro soggetti a notevoli oscillazioni nel tempo, al di sotto dei quali «giacciono questioni di potestà e di partecipazione nell’esercizio della potestà nella Chiesa, nonché di partecipazione dei fedeli ai munera di Cristo eccetera». 

Si tratta insomma di lemmi dai significati fluttuanti, nella storia ma anche tra i soli due Codices canonici del XX secolo. E nella declaratio benedettiana se ne trova una conferma: 

Al di là del fatto che lo stesso Ratzinger parla prima di amministrazione del munus e poi di amministrazione del ministerium, ricorrendo nella Declaratio due volte il termine munus e tre volte ministerium, tradotti nella versione italiana de L’Osservatore Romano sempre con “ministero”, in una ricognizione delle concettualizzazioni non affatto coincidenti della dottrina su questi lemmi […] è arduo rintracciare qualcosa che possa combinarsi con l’accampata dicotomia munus-ministerium

Allora, si dirà, se Benedetto XVI rinunciò a tutto il papato e non a una sua parte, perché non tornò a vestirsi da semplice vescovo, non ha tolto i segni pontifici dallo stemma araldico, non ha ripreso il nome secolare (tutte cose che Celestino fece, a quanto sappiamo dalle cronache)? 

Il papato emerito (che non costituisce una “diarchia”) 

Posto che nessuna di queste domande tocca punti capitali (fu Giovanni II il primo a cambiare nome, e per evitare che un papa si chiamasse come il dio Mercurio; e fu Pio V il primo a cambiare l’abito pontificio… proprio per non cambiare il proprio; su scarpe e cappelli, pellegrine, anelli e stemmi si aprirebbero capitoli interminabili…), bisogna altresì riconoscere che esse sono pure lecite, e che non disponiamo di risposte soddisfacenti. 

Quel “nel momento della rinuncia non c’erano a disposizione altri vestiti”, che Benedetto XVI scrisse in risposta a Tornielli nella medesima lettera citata sopra, non sembra tenere il tono del resto della lettera (e le sartorie ecclesiastiche dirimpetto una talare su misura glie l’avrebbero confezionata in una notte: dall’11 al 28 febbraio glie ne avrebbero fatte a dozzine). 

Quanto al nome, però, c’è un altro brandello di storia che può utilmente essere riportato alla memoria: il 7 dicembre 2014 fu pubblicato sul Messaggero un riassunto dell’intervista di Joerg Bremer a Benedetto XVI per la Frankfurter Allgemeine. Da quell’intervista si apprendeva che il Papa Emerito avrebbe voluto farsi chiamare «solo padre Benedetto», ma che non sarebbe riuscito a imporsi. Su chi? E come mai può dirlo tanto candidamente? Era quello un periodo in cui “padre Benedetto” aveva ritrovato le forze, e Bremer riportava che il suo illustre intervistato lo avvertiva lucidissimamente di cosa potesse scrivere e cosa no. Sulla storia del nome, immaginando di toccare un punto sensibile, il giornalista chiese “questo lo scriviamo?”, e la risposta è stata: «Faccia pure, magari può essere d’aiuto». 

“D’aiuto” in cosa? Cosa c’è da capire? C’è veramente qualcosa che Benedetto XVI sapeva e non voleva dire, come pretendono gli animatori dei circoli complottisti che fabbricano (e vendono) bile contro Papa Francesco? Più probabilmente c’è la coscienza (dai tratti distintamente ratzingeriani) di non essere il padrone degli istituti della Chiesa. Avevamo chiesto proprio al prof. Guzzo come reagirebbe a chi gli obiettasse che il papato emerito è un istituto che non esiste. Questo è ciò che ha risposto: 

Oggi esiste. L’ha creato Benedetto XVI… Anche se rimane necessario disciplinare meglio lo status di chi è già vescovo della Chiesa di Roma, e quindi è già Papa. La questione centrale è capire che l’attributo “emerito” legato al titolo di Papa ha semplicemente il significato di indicare colui che è “già Papa”, e non determina alcuna posizione gerarchica. Né può parlarsi di un’applicazione estensiva del Can. 185. 

Il canone menzionato da Guzzo è quello che regolamenta in generale il conferimento del titolo di “emerito”, e Guzzo dice che non può darsene «applicazione estensiva» perché Benedetto XVI non ha perso l’ufficio per raggiunti limiti di età, né per una rinuncia sottoposta ad accettazione. È del resto difficilmente negabile che sia per un’analogia con il caso del vescovo emerito che si è arrivati a parlare di “papa emerito” e di formule simili, ossia attraverso la dicitura “vescovo emerito di Roma” (con tutto quanto abbiamo cercato di esporre sopra nell’excursus storico). Anche la prof.ssa Boni, del resto, dopo aver argomentato per svariate decine di pagine la propria insoddisfazione per le soluzioni giuridiche finora proposte (buon’ultima quella di “Papa emerito”), dice la sua: 

Il titolo di vescovo emerito di Roma, dunque, se si tralasciano le “pecche” tutto sommato tollerabili che a esso possono addossarsi, si conviene sia il più confacente: e anzi, da un certo punto di vista, ci pare, il “tesaurizzare” la relazione con la diocesi di Roma, e dunque il serbare la romanitas, può rivestire uno spessore ecclesiologico, pastorale e soprattutto ecumenico da non sottovalutare. 

Insomma in che cosa “può aiutare”, la divulgazione del desiderio del Papa Emerito di essere chiamato “padre Benedetto”? Nel comprendere che non hanno torto, i canonisti, a discutere di problematiche tuttora aperte, perché neanche Benedetto XVI sapeva fino in fondo che cosa fosse e cosa sia un “Papa Emerito”, che cosa gli attenga e quali siano, eventualmente, tutti i suoi doveri. In realtà – e chi frequenta l’opera teologica di Ratzinger non può non riconoscervi una costante maggiore del suo stile teologale – Benedetto XVI sapeva che neanche il “supremo legislatore della Chiesa” dispone appieno dei suoi istituti, i quali sono perlopiù chiamati a definizioni e comprensioni di lungo corso. 

Inutile pertanto essere tassativi sul vestito, sul nome, sulla residenza, sulle calzature e sullo stemma araldico: solo lo Spirito dirà, nel tempo della Chiesa, a cosa sia chiamato un papa emerito. Benedetto XVI utilizzò l’ultima udienza pubblica, la penultima pagina del suo magistero, per lasciare questa luminosa testimonianza di un abbandono vissuto nella piena sinergia delle sue virtù teologali, dolcemente rischiarate dallo Spirito: 

Qui permettetemi di tornare ancora una volta al 19 aprile 2005. La gravità della decisione è stata proprio anche nel fatto che da quel momento in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore. Sempre – chi assume il ministero petrino non ha più alcuna privacy. Appartiene sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa. Alla sua vita viene, per così dire, totalmente tolta la dimensione privata. Ho potuto sperimentare, e lo sperimento precisamente ora, che uno riceve la vita proprio quando la dona. Prima ho detto che molte persone che amano il Signore amano anche il Successore di san Pietro e sono affezionate a lui; che il Papa ha veramente fratelli e sorelle, figli e figlie in tutto il mondo, e che si sente al sicuro nell’abbraccio della vostra comunione; perché non appartiene più a se stesso, appartiene a tutti e tutti appartengono a lui.

Il “sempre” è anche un “per sempre” - non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto, il cui nome porto da Papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha mostrato la via per una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera di Dio.

Ringrazio tutti e ciascuno anche per il rispetto e la comprensione con cui avete accolto questa decisione così importante. Io continuerò ad accompagnare il cammino della Chiesa con la preghiera e la riflessione, con quella dedizione al Signore e alla sua Sposa che ho cercato di vivere fino ad ora ogni giorno e che vorrei vivere sempre. Vi chiedo di ricordarmi davanti a Dio, e soprattutto di pregare per i Cardinali, chiamati ad un compito così rilevante, e per il nuovo Successore dell’Apostolo Pietro: il Signore lo accompagni con la luce e la forza del suo Spirito.

Invochiamo la materna intercessione della Vergine Maria Madre di Dio e della Chiesa perché accompagni ciascuno di noi e l’intera comunità ecclesiale; a Lei ci affidiamo, con profonda fiducia.

Cari amici! Dio guida la sua Chiesa, la sorregge sempre anche e soprattutto nei momenti difficili. Non perdiamo mai questa visione di fede, che è l’unica vera visione del cammino della Chiesa e del mondo. Nel nostro cuore, nel cuore di ciascuno di voi, ci sia sempre la gioiosa certezza che il Signore ci è accanto, non ci abbandona, ci è vicino e ci avvolge con il suo amore. Grazie!

E volle dedicare l’ultima pagina, l’indomani, proprio a sottolineare la penultima:

Vorrei lasciarvi un pensiero semplice, che mi sta molto a cuore: un pensiero sulla Chiesa, sul suo mistero, che costituisce per tutti noi - possiamo dire - la ragione e la passione della vita. Mi lascio aiutare da un’espressione di Romano Guardini, scritta proprio nell’anno in cui i Padri del Concilio Vaticano II approvavano la Costituzione Lumen Gentium, nel suo ultimo libro, con una dedica personale anche per me; perciò le parole di questo libro mi sono particolarmente care. Dice Guardini: La Chiesa «non è un’istituzione escogitata e costruita a tavolino…, ma una realtà vivente… Essa vive lungo il corso del tempo, in divenire, come ogni essere vivente, trasformandosi… Eppure nella sua natura rimane sempre la stessa, e il suo cuore è Cristo». È stata la nostra esperienza, ieri, mi sembra, in Piazza: vedere che la Chiesa è un corpo vivo, animato dallo Spirito Santo e vive realmente dalla forza di Dio. Essa è nel mondo, ma non è del mondo: è di Dio, di Cristo, dello Spirito. Lo abbiamo visto ieri. Per questa è vera ed eloquente anche l’altra famosa espressione di Guardini: «La Chiesa si risveglia nelle anime». La Chiesa vive, cresce e si risveglia nelle anime, che – come la Vergine Maria – accolgono la Parola di Dio e la concepiscono per opera dello Spirito Santo; offrono a Dio la propria carne e, proprio nella loro povertà e umiltà, diventano capaci di generare Cristo oggi nel mondo. Attraverso la Chiesa, il Mistero dell’Incarnazione rimane presente per sempre. Cristo continua a camminare attraverso i tempi e tutti i luoghi.

Rimaniamo uniti, cari Fratelli, in questo Mistero: nella preghiera, specialmente nell’Eucaristia quotidiana, e così serviamo la Chiesa e l’intera umanità. Questa è la nostra gioia, che nessuno ci può togliere.

Prima di salutarvi personalmente, desidero dirvi che continuerò ad esservi vicino con la preghiera, specialmente nei prossimi giorni, affinché siate pienamente docili all’azione dello Spirito Santo nell’elezione del nuovo Papa. Che il Signore vi mostri quello che è voluto da Lui. E tra voi, tra il Collegio Cardinalizio, c’è anche il futuro Papa al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza ed obbedienza.

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