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Manute Bol, la stella NBA che finì sul lastrico per pacificare il Sudan

Manute Bol

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Emiliano Fumaneri - pubblicato il 10/02/23
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Come l’asso sudsudanese del canestro, diventato una star del basket americano, ha messo tutta la sua fortuna – e la sua stessa vita – al servizio dei più poveri del suo Paese, martoriato da una lunga guerra civile. Diventando così una sorta di Mandela del Sudan, un eroe nazionale.

Papa Francesco, nel suo viaggio in due tappe in Congo e in Sud Sudan, ha spesso usato la parola «pace». Lo ha ricordato anche questo mercoledì, durante l’udienza generale.

E la cosa non stupisce visto il posto occupato dai due Stati africani nell’atlante delle guerre. La regione del Sud Sudan in passato è già stata teatro di due guerre civili nelle quali hanno trovato la morte oltre 2 milioni e mezzo di persone, mentre altri cinque milioni sono stati costretti a fuggire all’esterno, per non parlare degli sfollati. Solo un accordo del 2004 tra l’Esercito di Liberazione del Popolo del Sudan (ELPS) e il governo centrale ha messo fine alla seconda guerra civile avviando il cammino che avrebbe condotto al referendum per l’indipendenza del Sudan del Sud, raggiunta poi nel 2011.

Ma alla fine del 2013 un tentativo di golpe porterà a una guerra tra le due etnie Dinka e Nuer. Un conflitto etnico feroce che nel giro di un anno farà almeno altre 50 mila vittime.

Perciò Francesco si è presentato come pellegrino di pace insieme all’Arcivescovo di Canterbury e il Moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia. Un pellegrinaggio ecumenico nel nome di Cristo, Principe della pace, durante il quale il papa ha esortato i cristiani a farsi operatori, testimoni e mediatori della pace di Gesù.

Un testimone di pace in una terra martoriata

Come ha ricordato in questi giorni il portale Religion en libertad proprio nel Sudan del Sud (dove i cattolici rappresentano circa la metà della popolazione) si ricorda l’esempio e la testimonianza a favore della pace di quello che è considerato un «padre della pace», una sorta di eroe nazionale: Manute Bol, ex stella africana nella NBA, la lega americana del basket.

Nato nell’ottobre 1962 nel villaggio rurale di Turalei, di etnia Dinka, Manute (il cui nome significa “benedizione speciale”) da piccolo bada al gregge delle pecore e si vanterà sempre di aver ucciso un leone con la sua lancia (sicuramente un unicum per un cestista NBA) mentre faceva da guardia alle bestie – anche se si racconta che il leone stesse dormendo quando morì, ma poco importa.

Manute è altissimo. Del resto è venuto al mondo in una famiglia di spilungoni. A cominciare da mamma e papà (rispettivamente 2,08 e 2,03 metri) e sua sorella (anche lei alta due metri e tre centimetri). Il bisnonno poi svettava su tutti dall’alto dei suoi 239 centimetri. Manute si fermerà, si fa per dire, a soli 2,31 centimetri, fatto che ne farà il secondo giocatore più alto della storia della NBA, superato solo di pochi millimetri da Gheorghe Muresan.

Inizialmente prova a cimentarsi col calcio. Ma il gigante che arriverà ad avere un’apertura di braccia di due metri e mezzo (per 92 chili di peso) difficilmente avrebbe potuto trovarsi a suo agio su un campo da calcio. Un parente, saggiamente, gli consiglia di provare con un altro sport. Che, manco a dirlo, è il basket.

Gli esordi nel basket (non proprio fortunati)

Comincia così la sua carriera cestistica. Va a giocare nella squadra di basket più vicina, nella città di Wau. Gli inizi non sono proprio dei migliori: la sua prima schiacciata si conclude con una mascella rotta (assieme a un bel po’ di denti) sul cerchio del canestro. Comunque sia, in un anno arriva a giocare per il Catholic Club della capitale del Sudan, Khartoum.

Nel 1982, a vent’anni, viene notato da uno scout statunitense durante un incontro con la nazionale sudanese. Il coach americano cerca di convincerlo a trasferirsi negli Stati Uniti. Manute non parla una parola d’inglese, ma non gli mancano i motivi per farsi persuadere in fretta. A cominciare dalla discriminazione etnica e religiosa (è cattolico, come la maggior parte dei sudsudanesi) da parte della maggioranza musulmana di Karthoum.

Uno stoppatore d’eccezione

L’ex pastorello di bestiame finisce così nella Cleveland State University e poi a Bridgeport, dove si mette in luce nella NCAA. Attira in questo modo l’attenzione dei Washington Bullets, che lo ingaggiano al secondo turno del draft 1985. Nella sua prima stagione da matricola Bol si fa notare per quello che sarebbe diventato il suo marchio di fabbrica: la stoppata. Con 397 stoppate in 80 partite, una media di quasi cinque a incontro, si piazza già al secondo posto della classifica degli stoppatori NBA e fa segnare il record assoluto per un rookie, ancora imbattuto. La difesa rimarrà la sua “specialità”, non potendo competere in attacco con avversari dalla stazza ben più robusta della sua, malgrado i centimetri di differenza.

Anche per questo, quando passerà ai Golden State Warriors, l’allenatore cercherà di farlo tirare soprattutto da dietro la linea dei tre punti. Senza grandissimi risultati, anche se Manute, nella sola stagione 1988-1989, metterà a segno 20 triple arrivando perfino a segnare sei volte da tre punti durante una sola partita. Un risultato comunque notevole per un centro come lui e perfino straordinario per un giocatore della sua altezza. Sempre nella stessa stagione, Bol centrerà un fantastico risultato nelle stoppate (4,3 di media). A fine carriera, terminata anzitempo a causa dei ripetuti infortuni alle sue ginocchia di cristallo, sarà il secondo cestista di sempre per media di stoppate a partita (3,3 in 624 match) e addirittura sul gradino più alto per stoppate a minuto (0,176).

Conclusa la sua decennale esperienza nella NBA, Manute torna a casa (dopo una brevissima parentesi italiana a Forlì) circondato dalla popolarità e dalla gloria sportiva, oltre che arricchito dai ricchi contratti del basket a stelle e strisce e dagli introiti pubblicitari.

Da asso del canestro a operatore di pace

Manute Bol non ha mai dimenticato da dove veniva. In cuor suo portava le ferite di un conflitto nel quale la sua vastissima famiglia aveva visto uccisi 250 dei suoi membri. Negli anni in cui era diventato una stella del basket professionistico americano era tornato con regolarità nella sua terra natia per la quale spenderà gran parte dei 10 milioni dollari guadagnati negli Stati Uniti.

Al ritorno in Sudan, nel 1997, cerca di riportare pace tra i sudanesi del nord e quelli del sud. In quel periodo si allontana dai ribelli dell’ELPS, che aveva sostenuto economicamente per anni, che non credevano in una soluzione pacifica. Va invece a Khartoum, sede dell’élite settentrionale dominata dai discendenti degli arabi per portare avanti i colloqui di pace come rappresentante di sei fazioni meridionali.

Nel 2001 gli offrono il posto di ministro dello sport. Una delle condizioni è la conversione all’islam. Manute rifiuta di ripudiare la fede cattolica e si becca l’accusa di essere una spia americana.

Nel frattempo il resto dei milioni di dollari guadagnati in carriera finiscono nella Ring True Fondation, nata per raccogliere fondi per i bambini poveri e i rifugiati sudanesi (molti soldi li perderà anche per investimenti sbagliati negli States). Una volta fu multato dai Miami Heat, la sua squadra del tempo, perché aveva saltato due gare di preseason. Morale: 25.000 dollari di multa. Ma dov’era Manute? A Washington, per dare una mano nei colloqui di pace tra i signori della guerra sudanesi, gli stessi che bombardavano i campi profughi che Bol non aveva mai smesso di visitare, mettendo a rischio la propria vita, per rendersi conto della situazione in prima persona e organizzare gli aiuti umanitari. Buona parte della fortuna guadagnata finirà nella costruzione di 41 scuole miste (senza distinzione di etnia o di religione).

Il ritorno negli States e la vita da “clown”

Quando il Sudan finisce nella lista degli “stati sponsor del terrorismo”, il dittatore Al Bashir lo incolpa e lo fa condannare agli arresti domiciliari. Passerà un paio di anni in una casa alla periferia di Khartoum, senza lavoro né denaro, ma sempre determinato a mediare nel conflitto.

La pressione internazionale e quella popolare costringono il governo sudanese a rilasciarlo. Così Manute riesce a fuggire prima in Egitto e poi negli Stati Uniti, dove torna nel 2002 con lo status di rifugiato e si ingegna in ogni modo per raccogliere fondi, organizzando anche marce per la pace.

I soldi sono finiti da un pezzo: Bol fa una vita modesta, aiutato dagli ex compagni e dagli amici. Terminati i soldi guadagnati grazie allo sport, accetta qualsiasi trovata pubblicitaria per racimolare fondi da mandare ai fratelli sudanesi. Non ha paura a passare per clown diventando prima il fantino più alto del mondo (senza mai essere salito su un cavallo) o il giocatore di hockey più alto di sempre (senza aver mai pattinato in vita sua), firmando un contratto di un solo giorno con gli Indianapolis Ice della Central Hockey League.

Prende parte anche al Celebrity Boxing Show della Fox: un incontro di boxe tra glorie sportive del passato e del presente impegnate a sfidarsi sul quadrato. Anche se a malincuore, Manute si presta alla cosa e accetta di partecipare sapendo che l’emittente avrebbe mandato in sovrimpressione il numero di telefono della sua fondazione. Vince pure l’incontro, stendendo in tre round l’ex giocatore di football William Perry, portandosi così a casa i 35.000 dollari del premio che investirà nei suoi progetti.

La malattia e la morte

Malgrado le gravi ferite riportate in un incidente nel Connecticut, dove viene travolto da un taxi guidato da un tassista ubriaco, continua a tornare in Sudan. Bol si è ammalato anche della sindrome di Stevens-Johnson, una rara e grave malattia della pelle. Contro il parere della sua famiglia, rientra in Sudan quando viene a sapere che la pace poteva essere aiutata dalla sua presenza.

Si pensa che le medicine prese durante il suo ultimo viaggio possano avergli causato dei danni al fegato, aggravatisi nel volo di ritorno in America. L’ex asso della NBA muore in un ospedale della Virginia il 19 giugno 2010, a soli 47 anni, per un’insufficienza renale insorta come complicanza alla sua malattia. Il suo ex compagno di squadra Charles Barkley ha detto una volta di lui: «Molte persone si sentono dispiaciute per lui, perché è così alto e goffo. Ma vi dirò questo: se nel mondo tutti fossero Manute Bol, sarebbe un mondo in cui vorrei vivere».

Un cristiano radicale?

Un articolo a firma di Jon A. Shields apparso sul Wall Street Journal pochi giorni dopo la morte del cestista diventato una specie di Mandela sudanese si spinge a parlare di un «cristianesimo radicale» di Manute Bol. Bol, ricordava Shiedls, aveva accettato anche di fare il clown. Ma lo aveva fatto alla maniera dei «folli di Cristo»: non per fame di celebrità, tornaconto personale o per esaltare il proprio ego. Senza contare che oltre a sfidare il ridicolo aveva anche contratto la grave malattia che alla fine lo avrebbe portato alla morte.

Così facendo, conclude Shields, Bold aveva ricordato a tutti, in un mondo narcisista come spesso è quello della NBA (ma non solo la NBA ovviamente) che valuta tutto in termini di performance e business, cha la redenzione cristiana «comporta sempre un abbassare e un umiliare se stessi: conduce alla sofferenza e anche alla morte».

Come ha scritto qualcuno su Twitter: «Gli assi NBA finiscono per lo più sul lastrico per le auto, i gioielli e le groupies. Manute Bol è finito sul lastrico costruendo ospedali».

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