Se, per assurdo, avessimo la possibilità di viaggiare su una macchina del tempo approdando nella Catania in cui visse Giovanni Verga, sarebbe ben strano lo spettacolo che si parerebbe ai nostri occhi se avessimo modo di visitare la città di allora, in questo periodo dell’anno. Scopriremmo con stupore che le strade del centro storico sono invase da un allegro esercito di donne mascherate, con un lungo velo di colore scuro che ne cela il volto lasciando libera solamente una feritoia per gli occhi: quel tanto che basta per vedere senza esser riconosciute.
Strano ma vero, era proprio in questo modo che, un tempo, le donne di Catania amavano festeggiata sant’Agata, patrona cittadina. Il caratteristico costume che indossavano le trasformava in ‘ntuppatedde – un nome che deriva dal termine “tuppa”, utilizzando nel dialetto locale per indicare la membrana che chiude il guscio delle chiocciole. Allo stesso modo in cui la lumachina si rifugia nel suo guscio quando vuole starsene al sicuro, le donne catanesi utilizzavano quel vistoso velo per proteggere la loro identità. E poi (in un allegro Carnevale anticipato) sciamavano per le strade tra risate e passi di danza, godendosi un pomeriggio di divertimento interamente al femminile.
Le ‘ntuppatedde e la festa di sant’Agata nelle parole di Giovanni Verga
Ma in cosa consisteva, esattamente, questo divertimento?
Abbiamo la fortuna di potercelo far spiegare da un testimone d’eccezione: niente meno che Giovanni Verga, che nel 1877, dando alle stampe la novella La coda del diavolo (edita nella raccolta Primavera e altri racconti), tracciò un vivace ritratto di questa tradizione popolare:
A Catania la quaresima vien senza carnevale; ma in compenso c’è la festa di Sant’Agata – gran veglione di cui tutta la città è il teatro – nel quale le signore hanno diritto di mascherarsi sotto il pretesto d’intrigare amici, i conoscenti, e d’andar attorno, dove vogliono, come vogliono, con chi vogliono, senza che il marito abbia il diritto di metterci la punta del naso. […] Il costume componesi di un vestito elegante e severo, possibilmente nero, chiuso quasi per intero nel manto, il quale poi copre tutta la persona e lascia scoperto soltanto un occhio per vederci e per far perdere la tramontana, o per far dare al diavolo. La sola civetteria che il costume permette è una punta di guanto, una punta di stivalino, una punta di sottana o di fazzoletto ricamato, una punta di qualche cosa da far valere insomma, tanto da lasciare indovinare il rimanente.
E «indovinare il rimanente» sarebbe certamente stata cosa interessante per il malcapitato che avesse avuto la ventura d’essere preso di mira da una delle ‘ntuppatedde, tenuto conto del fatto che le donne catanesi approfittavano di quel giorno di festa e di quel clima carnascialesco per approcciarsi con una certa divertita sfacciataggine agli uomini che incrociavano per strada. Li fermavano senza vergogna, li prendevano sottobraccio, si facevano accompagnare in pasticceria per farsi comprare un vassoietto di dolci; ma c’era anche chi provava a farsi regalare fiori, piccoli gioielli – o meglio ancora, a strappare la promessa di un appuntamento galante. In un’epoca in cui non era culturalmente benvisto che fosse la donna a fare il primo passo per segnalare la sua disponibilità all’uomo che le piaceva, le allegre mascherate carnascialesche delle ‘ntuppatedde consentivano spesso a molte ragazze di tentare giocosamente un primo approccio, senza il rischio di… perdere la faccia. E per chi, invece, era già sposata, vi sarebbe comunque stato il divertimento di “dare il tormento” a mariti, padri, fratelli, amici di famiglia: era un allegro Carnevale a cui nessuno si sottraeva. Del resto, perché negare e negarsi quel po’ di divertimento?
La morte e rinascita della tradizione delle ‘ntuppatedde
Come nasce questa tradizione?
Difficile dirlo, e le fonti storiche non ci sono di grande aiuto in questo senso. Sappiamo per certo che le mascherate delle ‘ntuppatedde dovevano essere ben note già alla fine del XVII secolo, tenuto conto del fatto che nel 1693 un’ordinanza municipale intervenne per regolare la tipologia di costumi che potevano essere utilizzati (comandando, per ragioni di ordine pubblico, che consentissero a chi li indossava di rendersi riconoscibile se necessario). La tradizione restò viva fino alla fine del XIX, ma già nel 1877 Verga ammetteva con una punta d’amarezza che «è vero che è un’usanza che se ne va»: in effetti, pian piano, il costume andò a morire, e addirittura a un certo punto fu proibito dalle autorità, per le preoccupazioni legate a motivi di ordine pubblico cui abbiamo già fatto cenno. Del resto (anche se non sempre vi furono divieti veri e propri) qualcosa di simile accadde, in quel periodo storico, a molte usanze popolari attestate da Nord a Sud della penisola: la gente cominciò a considerarle troppo antiquate, ormai incapaci di trasmettere contenuti di valore a una società in rapido cambiamento. Entro le ultime decadi del XIX secolo, le ‘ntuppatedde avevano già smesso di rallegrare le strade di Catania.
Le «nuove ‘ntuppatedde» di Elena Rosa
E questa storia potrebbe concludersi qui, se non ci fosse il colpo di scena. Nel 2013, Elena Rosa, performer e regista catanese, ebbe l’intuizione di rispolverare questa tradizione antica, adattandola al mondo contemporaneo. Le sue «nuove ‘ntuppatedde» (come la regista ama definirle) non sono e non voglio essere la fotocopia delle loro antenate, né tantomeno tentano di porsi come la rievocazione storicamente accurata della manifestazione ottocentesca descritta da Verga. Al contrario, sono (e dichiaratamente) la rivisitazione contemporanea di questa tradizione antica.
Innanzi tutto, è cambiato il costume delle donne, che non è più quel velo nero con una feritoia per gli occhi (totalmente improponibile ai giorni nostri, per gli inevitabili parallelismi che susciterebbe con quello che viene imposto alle donne da alcuni regimi islamici). Oggigiorno, le ragazze catanesi che si mascherano da ‘ntuppatedde indossano leggiadre vesti bianche da un velo in tulle, simili ad abiti da sposa; tra le mani stringono un garofano rosso: un omaggio esplicito a sant’Agata, che spesso in città è onorata con fiori dai petali purpurei, simbolo di martirio.
E, inevitabilmente, è cambiata anche la motivazione per cui le ‘ntuppatedde scendono in strada: in epoca di parità dei sessi, le donne non hanno più bisogno di mascherarsi per corteggiare e farsi corteggiare. E allora, approfittano di questa allegra mascherata per divertirsi, semplicemente, in compagnia: danzando, cantando, sorridendo e facendo dono della loro semplice presenza.
Oggigiorno, non tutte le ‘ntuppatedde festeggiano il giorno di sant’Agata perché spinte da sentimento religioso nel senso tradizionale del termine. Le motivazioni che le portano a scendere in piazza possono essere le più svariate, spaziando dalla devozione propriamente detta alla volontà di tenere viva una tradizione folkloristica. Interpellate a proposito dai giornalisti, molte ‘ntuppatedde dichiarano in ogni caso di ammirare l’esempio di sant’Agata, che con coraggio e fermezza volle difendere i suoi ideali opponendosi alla violenza maschile: una testimonianza fortemente ispiratrice per le donne d’oggi; e probabilmente in più d’una direzione.
E, in questo senso, fanno riflettere le parole con cui Elena Rosa illustrava, in una intervista alla testata Now in Sicily, le motivazioni che l’hanno spinta a riproporre questa pratica: «ognuna di noi lo fa per ragioni diverse, ma evidentemente c'è un bisogno che è nato. In passato alcuni mi hanno detto: “beh, però se questa tradizione è scomparsa ci sarà un motivo”. E io rispondo: “beh, però ci sarà un motivo anche se vuole rinascere”».
E anche questa, se vogliamo, è una forma di devozione popolare che (letteralmente) cambia veste ma ancora sopravvive, trovando nuovi modi per parlare alle donne d’oggi.