Il rapporto tra ebrei e cattolici è uno dei classici temi, come si dice di solito, da maneggiare con cura. Alto infatti il rischio di rimanere scottati, di ferire i cuori anche coltivando in cuor proprio la migliore delle intenzioni (sempre ricordando che queste lastricano sentieri non proprio raccomandabili per chi ha a cuore la salvezza eterna).
Il peso di un passato troppo spesso tormentato qui si fa sentire con particolare intensità. Certo, i tempi dell’insegnamento del disprezzo, dove imperversava quella che Jacques Maritain chiamò l’«idea-vampiro» antigiudaica, possono apparire ricordi sbiaditi.
Il pericolo di antropomorfizzare Dio
Col tempo i cristiani hanno imparato a non guardare a Dio con gli occhi e lo spirito del vecchio Adamo, cessando di immaginarselo alla stregua di un amante ferito e furente, impegnato a scagliare maledizioni e che, come scrive appunto Maritain, «si mette a odiare colei che amava e che l’ha tradito». No, ci dice il grande filosofo, è una bestemmia pensare che Dio abbia rivolto verso Israele uno sguardo pieno d’odio, vendicandosi come farebbe un uomo oltraggiato. Come se Dio fosse non l’origine di tutte le cose, ma semplicemente una super-creatura che, di conseguenza, non facesse altro che esprimere una super-furia, una super-collera. Tutte passioni destinate a tradursi, ahinoi, in una super-vendetta.
Dio così non sarebbe altro che un Otello infinitamente più potente, secondo una tipica confusione tra sovrannaturale e sovracreaturale. Una immagine, questa, davvero troppo umana perché potesse albergare ancora a lungo nella Chiesa di Cristo.
Ma i tempi della storia hanno ben altre stagioni rispetto a quelle di una singola esistenza umana. Per decantare e alleggerirsi certi pesi hanno bisogno del balsamo del tempo. E anche il perdono col suo potere liberante – lo ricordavamo nel caso del giovane sopravvissuto al massacro del Bataclan – è un’arte difficile dove non si tratta di calcolare, ma piuttosto di sciogliere dei nodi intimi e nascosti. Che continuano a urlare anche nel silenzio.
Il cammino doloroso degli ebrei convertiti
È alla luce di questo passato ingombrante – che ancora si trascina dietro nodi rimasi irrisolti – che vanno incastonate le testimonianze che seguiranno, raccolte dal settimanale francese Famille Chrétienne: quelle di figli e figlie di Abramo convertiti alla fede della Chiesa. Un percorso il loro che assomiglia davvero a una via crucis, tra tensioni con le famiglie e le comunità d’origine, ostacoli teologici. Ecco così che il passaggio dall’ebraismo al cattolicesimo può finire per rassomigliare a un percorso a ostacoli. O, meglio, a una via dolorosa.
Ci fu chi, malgrado l’attrattiva suscitata dalla fede cattolica, si fermò a metà strada e questo percorso non lo portò a termine. Fu il caso del filosofo Henri Bergson che malgrado la sua «adesione morale al cattolicesimo» rinunciò a chiedere il battesimo in segno di solidarietà col suo popolo.
«Le mie riflessioni mi hanno portato sempre più vicino al cattolicesimo dove vedo il completamento dell’ebraismo», scrisse Bergson nel suo testamento del 1937. «Mi sarei convertito, se non avessi visto prepararsi da diversi anni la formidabile ondata di antisemitismo che va dilagando sul mondo. Ho voluto restare tra coloro che domani saranno dei perseguitati».
Anche altri, come Simone Weil, che pure aveva sperimentato un «contatto reale da persona e persona» con Cristo, rimarranno sulla soglia. «Mi arresto alla soglia della Chiesa con gli occhi volti verso il Santo Sacramento, ma senza osare fare il passo», scriverà Simone Weil anche se, secondo alcuni, avrebbe ricevuto il battesimo in articulo mortis (prima di morire nel sanatorio di Ashford, piegata dalla tubercolosi).
Judith Cabaud, la biografia di Eugenio Zolli che ha incontrato Cristo
Convertirsi a una religione differente da quelli dei propri affetti difficilmente avviene senza andare incontro a scontri e dolori. E nel caso del passaggio dall’ebraismo al cattolicesimo questo movimento dello spirito si riveste di una dimensione particolarmente sofferta, che fa male fino alle lacrime e alla carne. «Tutto è ostacolo, non c’è altro», confida a Famille Chrétienne la scrittrice Judith Cabaud, già autrice di un libro (Il rabbino che si arrese a Cristo) sulla clamorosa conversione al cattolicesimo di Israel Zolli, il vecchio rabbino capo di Roma che col battesimo assumerà il nome di Eugenio Pio.
Anche Judith Cabaud è una convertita: ormai diversi anni fa – nel 1985 – ha raccontato la storia della sua conversione in un libro: Sur les balcons du ciel (Sui balconi del cielo). Cabaud, adesso 81enne, è nata a New York da una famiglia ebraica di ascendenza russo-polacca. Giunta a Parigi per completare i suoi studi universitari, entrerà in contatto col cattolicesimo attraverso la cultura cattolica e grazie a un amico cattolico (l’uomo che diventerà poi suo marito) che la porterà ad ascoltare le omelie dei sacerdoti di Notre-Dame.
Per lei sarà l’immersione in un mondo agli antipodi della sua educazione familiare. «Nella mia famiglia osservavamo le feste ebraiche ma non si parlava mai di Dio, come se fosse accessorio», racconta. «Leggendo Pascal, poi assistendo alla messa, a poco a poco ho scoperto il Dio che stava dietro a tutto questo. La luce si è accesa quando ho compreso che la fede cattolica era soprattutto un incontro con una persona. Ho cercato a spiegarlo alla mia famiglia, ma l’abbandono delle usanze ebraiche è stata una catastrofe per loro», spiega Cabaud che, come anticipato, ha sposato quel suo «amico cattolico» mettendo al mondo insieme a lui nove figli, uno dei quali diventato sacerdote.
«Cambi Dio, cambi i tuoi genitori! Fatti adottare!»
Tensioni familiari e comunitarie che emergono d’altronde anche in Reste un peu, il secondo lavoro da regista dell’attore (nato in una famiglia sefardita ma da tempo avvicinatosi alla fede cattolica) Gad Elmaleh che racconta la conversione al cattolicesimo di un ebreo tornato a Parigi dopo tre anni passati a inseguire l’«american dream». Il protagonista ufficialmente giustifica il suo ritorno in patria con la mancanza della famiglia e degli amici. Salvo scoprire, con grande sorpresa dei suoi, che è solo una scusa. È rientrato a Parigi non soltanto per il cuscus di sua madre, ma soprattutto per incontrare un’altra donna: la Vergine Maria.
Un film a mezza via tra la fiction umoristica e il documentario, con ovvi richiami autobiografici, dove recitano anche i veri genitori e la sorella di Gad Elmaleh. Il film però è ispirato alla vita di un altro: quella del vecchio arcivescovo di Parigi, il cardinale Jean-Marie Lustiger, nato in una famiglia di ebrei polacchi (deportati ad Auschwitz, dove morirono la madre e la sorella di Lustiger) prima della sua conversione al cattolicesimo, avvenuta nel 1940.
Gli spettatori sono rimasti colpiti da quella che appare una commedia esilarante, con momenti da cabaret, ma basata su scene reali recitate da una famiglia reale, come sono reali le scene in chiesa. La giornalista Émilie Tran Nguyen racconta il suo disorientamento davanti alla costruzione del film: «Mi sono spesso chiesta se stavo assistendo a un documentario o a un film».
Un bizzarro cortocircuito tra realtà e finzione che emerge con prepotenza, spiega lo stesso Gad Elmaleh, in una scena in particolare, riportata anche nel trailer. È quella che vede sua madre – che, ricordiamo ancora, nel film interpreta sé stessa – impegnata a rampognare i figli a tavola. È in questa circostanza che se ne esce con questa frase: «Mio figlio! Ma rinnega le sue origini, mio figlio! Assolutamente! Cambi Dio, cambi i tuoi genitori! Fatti adottare!».
Stava soltanto recitando una parte? O era un intreccio con la vita reale? A sentire lo stesso Gad Elmaleh la battuta non era prevista dal copione: è stata una invenzione fulminante di sua madre durante una ripresa. Un’attrice in erba capace anche di inventarsi delle repliche sul momento come gli attori consumati… Il fatto è che quella improvvisazione, spiega a France 5 l’umorista, è «in continuità col suo pensiero e col suo sentimento su questa deviazione dell’ebraismo». Una battuta che difatti lo ha lasciato di stucco, precisa l’attore.
Frizioni e dolori che possono dare frutto: Élisabeth Smadja e padre David Neuhaus
La scrittrice Élisabeth Smadja, 69 anni, nata a Tunisi e convertita al cattolicesimo da un ebraismo ortodosso particolarmente fervente, spiega al settimanale cattolico che «quando pariamo di Gesù a un ebreo praticante, in Lui vede soltanto un nemico: quante persecuzioni e massacri in suo nome! Accoglierlo, aderire al suo insegnamento significa dunque tradire la propria gente. È una grande incomprensione e una sofferenza per tutti: per la propria famiglia, i propri amici, la propria comunità, per sé».
È per rispettare questo dolore che padre David Neuhaus all’età di 15 anni ha promesso ai suoi genitori di aspettare dieci anni prima di farsi battezzare. «Come puoi unirti a loro dopo quello che ci hanno fatto?», gli aveva domandato sua madre, incredula per la sua decisione di convertirsi al cattolicesimo. «Sono stati anni ricchi di dialogo coi miei genitori, coi miei amici, e un tempo per imparare a conoscere bene la Chiesa», ricorda padre Neuhas, entrato poi nei Gesuiti. «Quando mi sono finalmente rivolto alla Chiesa per chiedere il battesimo, sono stato sollevato che mi dicesse: “Prenditi tempo per discernere il tuo cammino”. Non ho veramente superato questo ostacolo (a riguardo della mia famiglia e della mia storia ebraica), questo rimane piuttosto un punto di frizione, ma una frizione fruttuosa, che vivifica la mia fede e la mia costante ricerca di Gesù»., confida l’ecclesiastico adesso diventato superiore dei Gesuiti della Terra santa. La prima reazione dei suoi, lo vediamo confidare anche a La Vie, fu violenta. Suo padre però ha accettato di leggere la prima lettura in ebraico durante la sua messa di ordinazione.
Una via dolorosa: come la vita reale
C’è poi la difficoltà teologica: come passare dal Dio unico della Bibbia alla Trinità del Vangelo? Élisabeth Smadja ha dedicato i suoi lavori al tentativo di mostrare il legame esistente tra l’ebraismo e il cristianesimo. «Per questo ho riletto tutte le parole della nostra fede in ebraico, lingua che permette una pluralità di significati. Tuttavia, prima di avere tutte le risposte, mi sono fatta battezzare», dice.
Poi aggiunge: «Quando si è ascoltata questa parola: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”, non si può più fare come se niente fosse successo. E con Dio che è nostro Padre, Cristo che è il Figlio, come lo siamo anche noi in Lui, nel soffio dello Spirito Santo, si avanza sulla via con Colui che la Via». Una vita mescolata di gioia e dolore. Come la vita reale d’altro canto.
«Ma una volta che la luce è accesa e si vede chiaro, infine, non la si può spegnere», conclude Judith Cabaud. Nemmeno se a chiederlo è la propria famiglia.