È una storia che fa riflettere quella raccontata da Rakhi McCormick a The Coming Home Network, una piattaforma che raccoglie testimonianze di fede, soprattutto di conversioni.
Nata in California da una famiglia immigrata dall’India e cresciuta in Iowa («una bambina indù tra i campi di mais»), la storia di Rakhi mostra quanto gesti a cui noi “cattolici della domenica” guardiamo – chi scrive in primis – con uno sguardo avvizzito dall’abitudine possano invece toccare corde intime. Arrivando fino a sconvolgere esistenze in un solo fulmineo istante.
Come detto, Rakhi, adesso sposata (da 12 anni, con Timothy) e madre di tre figli, è figlia di una coppia emigrata da Calcutta nel 1970 per cercare fortuna negli Stati Uniti. Una famiglia di religione indù, ma desiderosa di integrarsi negli States. In mancanza di un tempio indù nelle vicinanze, racconta, la religiosità tradizionale indù trovava spazio tra le mura domestiche dove c’era un altare, ricorda, davanti al quale ogni giorno la sua famiglia era solita pregare. Al tempo stesso in casa trovavano spazio anche l’albero di Natale e Santa Claus, considerati elementi della cultura americana da assimilare.
I “semi di verità” dell’induismo
Anche nell’induismo, spiega Rakhi, ci sono elementi preparatori, semi di verità in grado di propiziare l’incontro con Cristo. Ad esempio è presente l’idea di un Dio creatore e benevolo, accanto ad altri «dèi minori» come Maa Durga (Madre Durga o Parvati), sposa di Shiva e dea dalle molte braccia, che già allora Rakhi considerava alla stregua di divinità mitologiche come quelle dei Greci. Altro punto che possiamo considerare «preparatorio» nella tradizione indù, sostiene Rakhi McCormick, è la presenza di entità celesti intermedie al di sotto del Dio creatore a cui i fedeli usano rivolgersi. Una realtà che le farà apparire familiare anche la comunione dei santi, l’intercessione dei santi, i santi patroni.
Il primo incontro con Cristo
Rakhi cresce così, con una grande solitudine interiore e profondo desiderio di appartenenza. A tredici anni, mentre sta bevendo una limonata in veranda, una sua amichetta, cristiana battista, le chiede un po’ a bruciapelo se sapesse chi era Gesù. «Vuoi sapere chi è Gesù?». All’epoca quel nome le suonava come quello di «Babbo Natale» o di «albero di Natale». In famiglia si festeggiavano come parte della cultura americana, ma senza alcun riferimento alla nascita di Gesù.
Ma la sua amica insiste: «Gesù ti rende soltanto migliore la vita. È sempre con te, e tu hai questo difensore e la vita è soltanto migliore e più facile». Questa proposta tocca il suo desiderio di adolescente di sentirsi meno sola. «Vuoi avere Gesù nella tua vita?», le chiede la sua coetanea. «Certo, perché no?» risponde Rakhi, che si vede così dare una preghiera da recitare alla sera, prima di dormire. Una preghiera molto semplice: «Gesù, ti voglio nella mia vita».
Un Dio che raccoglie ogni scintilla di bontà
Rakhi torna a casa e comincia a pregare con gli occhi chiusi: «Gesù, ti voglio nella mia vita». Si aspettava di svegliarsi alla mattina trovando qualche cambiamento immediato nella sua esisitenza. Ma non era cambiato granché e la cosa, in un certo senso, finì lì. Questo primo contatto con la figura di Gesù può sembrare banale o ingenuo. «Ma io credo fermamente che Dio risponda a questa richieste», confessa Rakhi. Oggi è convinta che la sua amicizia con Cristo sia nata in quel momento. E che tutto ciò che è avvenuto a distanza di anni sia stata la risposta di Gesù a quel suo primo appello.
Viene alla mente un mirabile commento di Charles Moeller sul modo in cui il Dio cristiano, alla maniera di un mietitore celeste, percorre il campicello della vita umana per raccogliere il più minuto fascio di grano buono, anche dovesse trovarsi in mezzo alle ortiche: «Dio vede in modo diverso dall’uomo. Se è vero che, nella sua trama fondamentale, la vita umana appare così estranea al cristianesimo, è vero anche che Dio, che scruta le reni ed i cuori, è il solo a scoprire le scintille di bontà sparse in ogni esistenza: nulla va perduto, basta anche solo una piccola lagrima; il movimento più superficiale di carità è contato da Dio come se emanasse dalle acque profonde della nostra anima».
Dall’idolo della popolarità alla ricerca del senso della vita
Ad ogni modo da lì in avanti parte la sua ricerca di un senso più alto nella propria esistenza. Una ricerca che inizialmente la porta a imboccare strade sbagliate. Il suo desiderio di appartenenza la spinge infatti a cercare la popolarità ad ogni costo. Vuole piacere a tutti e avere molti amici. È la ricerca affannosa della popolarità - che lei stessa non ha timore di definire un idolo – che negli anni del college la porta a frequentare i party e a abusare dell’alcol.
Così a 17 anni finisce all’ospedale per gli eccessi delle feste. In quella circostanza, accade un altro fatto che la colpisce nel profondo. Una ragazza, la figlia di un pastore protestante, le si avvicina e comincia a pregare con lei. Questa cosa la fa parecchio pensare. La giovane Rakhi di allora comincia seriamente a interrogarsi sul senso della propria vita.
Il primo contatto con la Bibbia
Inizia così a esplorare diverse religioni nei giorni del college. Va anche a una cena di Shabbat da un amico ebreo. Ma da nessuna parte, racconta, si sente veramente accolta. A questo punto inizia a leggere da sola la Bibbia. Quello che legge non le appare insensato, per nulla. Il fatto che Dio abbia mandato suo Figlio le pare una cosa buona. Decide di essere cristiana, «non rendendomi conto che dovevo essere battezzata», spiega sorridendo.
Del cattolicesimo invece non sapeva nulla a parte quella volta che i suoi genitori erano andati alla messa di mezzanotte nella cattedrale di San Patrizio a New York, affascinati dalla bellezza e dai profumi di quella messa.
Il marine che preferiva onorare Dio nei poveri invece che fare baldoria
C’è un’altra testimonianza personale ad aver impressionato Rakhi (convincendola al tempo stesso che «Dio ha il senso dell’umorismo»): quella di un giovane marine, anche lui cristiano battista, il giorno di Natale. Quel giorno Rakhi se n’era andata insieme ai suoi amici in un monastero benedettino che la mattina di Natale celebrava una messa per i senzatetto. Rakhi – diciannovenne all’epoca – viene incaricata di distribuire giocattoli ai bambini poveri. Ad affiancarla c’è quel marine che le confida che quel giorno è anche il suo ventunesimo compleanno. Molto meglio essere lì, le spiega, piuttosto che alla base a festeggiare e a bere (come sarebbe praticamente costretto a fare). Le parla di quel Gesù che è morto per lui, che ritiene suo dovere servire e onorare a Natale, nel giorno della sua nascita.
E Rakhi rimane stupita di aver trovato un ventenne che preferisce andare in chiesa coi poveri piuttosto che cuoi suoi compagni a fare baldoria.
Quella messa che ha cambiato tutto
Qualche tempo dopo un’amica cattolica la invita a partecipare alla sua prima messa, non senza averle spiegato che non potrà ricevere l’ostia, il corpo di Cristo, al momento della distribuzione durante la Comunione. Un concetto piuttosto ostico da afferrare per Rakhi in quel momento. Ancora non sa che tutto sta per cambiare nella sua vita. «All’elevazione – racconta – ho avuto questa sensazione mistica, un’esperienza per la quale non avevo parole al tempo ma che, ripensandoci, non era altro che la consapevolezza che Dio è reale, che Gesù è reale, che è Dio è presente nell’Eucarestia e che mi ha chiamato a casa».
Rakhi scopre così a cosa la stava chiamando quel desiderio di appartenenza. Quell’appello la preparava all’incontro col Corpo mistico di Cristo, con la Chiesa. In quel momento, guardando la Comunione, la sua unica domanda è: «Come faccio ad averla?». La Pasqua successiva, dopo il catecumenato, entra nella Chiesa Cattolica.
Il ruolo della comunità
Dopo non sarà tutto rose e fiori. A lungo Rakhi faticherà ad arrendersi veramente a Dio. Per diverso tempo la sua fede non riuscirà a diventare una pratica quotidiana, una relazione intima e personale. Ad aiutarla in tal senso, spiega, sarà la vicinanza dei suoi nuovi fratelli nella fede che ovunque si trasferisse per proseguire i suoi studi la invitavano provvidenzialmente nei loro gruppi o a messa quando si affacciava la tentazione di abbandonare la pratica religiosa.
L’atto di abbandono nelle mani di Dio
Il momento della vera resa, ricorda, arriverà quando una notte, ormai superata la trentina, farà una preghiera di totale abbandono in un momento particolarmente difficile della sua vita: «Dio, farò qualunque cosa. Se vuoi che io sia una suora, sarò una suora. A mia madre non piacerà, ma sarò una suora. Sono la sua sola possibilità di essere nonna. Farò qualsiasi cosa. Come tutti, non voglio essere infelice, ma la mia vita è tua».
Molto rapidamente, dopo quell’atto di totale abbandono, molte cose nella sua vita «hanno cominciato ad andare a posto». Per cominciare ha incontrato Timothy, l’uomo che sarebbe diventato suo marito, scoprendo che anche lui aveva fatto una preghiera molto simile in quello stesso periodo. Da poco Timothy era ritornato al cattolicesimo, dopo un’udienza a Roma con Giovanni Paolo II. Adesso Timothy e Rhaki, diventati marito e moglie, vivono a Detroit, Dalla loro unione, che dura da dodici anni, sono nati tre figli. I due sono attivi nel campo dell’evangelizzazione.
Maria e il rosario, l’ultima scoperta
Negli ultimi due anni Rhaki ha scoperto la presenza di Maria nella sua vita, soprattutto dopo aver perso sua madre all’inizio della pandemia. Anche in questo caso la presenza di importanti divinità femminili nella tradizione indù le ha fatto apparire «una transizione non innaturale quella di venerare Maria come Madre di Dio» attraverso la preghiera del rosario. La preghiera di Rhaki era soprattutto animata da Gesù Eucarestia e dallo Spirito Santo (si definisce una «Holy Spirit girl»). Ma da un paio di anni ha compreso l’importanza della Madonna. Dopo tutto, conclude, è stato Giovanni Paolo II a dire che pregare il rosario significa «contemplare il volto di Cristo assieme a sua Madre. E così non c’è niente che Maria faccia che non ci conduca a suo Figlio».