V’immaginate, voi che avete vissuto un parto (o che vi avete assistito), se quindici secoli dopo quell’evento – dunque in un futuro remoto da voi (non convenzionalmente) esperibile – un poeta dedicasse un’opera apposta a descrivere quella vicenda?
Ebbene, questo è quanto è accaduto nel 1527, quando Jacopo Sannazaro scrisse e pubblicò il suo De partu Virginis: tre libri in esametri latini in cui si ripercorrono le vicende dei “Vangeli della Natività” ponendo come cardine narrativo appunto il parto di Maria.
L’opera è eruditissima e di non facile lettura, meno per la lingua e per il metro che per il linguaggio arcadico (talvolta così simbolico da risultare oscuro): di fatto la lessero quasi solo gli umanisti dei circoli letterarî italiani e pochi altri in Europa; al giorno d’oggi la leggono in una nicchia di quella nicchia.
A differenza dello svolgimento, però, il tema che Sannazaro poneva però, nella sua maturità e quando già cominciava a consumarsi lo strappo della Riforma protestante, era largamente innervato nella società e nella cultura cristiane europee, e questo da molti secoli ormai.
L’astio anti-mariano nasce dal teismo illuministico
Si avrebbe torto a proiettare sui Lutero e sugli altri riformatori l’astio anti-mariano riscontrabile in certe correnti evangelicali dei nostri giorni: la devozione mariana fu una costante non solo in Lutero, ma ancora in luterani di epoca barocca come Bach – nella Passione secondo Matteo Gesù è detto «nato da una Vergine pura e santa» (e purtroppo è andata perduta la cantata Sieh, eine Jungfrau ist schwanger del 1724, composta per la festa dell’Annunciazione!).
L’astio anti-mariano è un fenomeno più contemporaneo che moderno, e trova semmai le sue radici nel teismo razionalistico illuministico, che proprio tra XVII e XVIII secolo cominciava a diffidare di ogni asserto teologico che non fosse deducibile «nei limiti della sola ragione». Appunto in Kant si trova una delle espressioni più “pacate” e “benevole” di questa tendenza, nella sua maturità, laddove in una delle prime note alla seconda parte de La religione entro i limiti della semplice ragione (del 1793), il filosofo prussiano scrisse:
La concepibilità di una persona esente dalla innata tendenza al male perché nata da madre vergine, è un’idea della ragione che si adatta a un istinto che si può dire morale, difficile da spiegare ma tuttavia innegabile; infatti noi consideriamo la procreazione naturale come qualcosa di cui dobbiamo vergognarci perché essa non può aver luogo senza il piacere dei sensi dell’uomo e della donna e sembra condurci a una parentela troppo prossima (per la dignità umana) con la specie animale in generale; e questa convinzione è stata certamente la vera causa della presunta santità dello stato monacale. A causa di ciò, la generazione ci appare come qualcosa di immorale e di incompatibile con la perfezione dell’uomo, pur essendo ormai indisgiungibile dalla natura umana, e tale da trasmettersi per eredità anche ai discendenti come una disposizione cattiva. Questa rappresentazione oscura (per un verso semplicemente sensibile, ma per l’altro morale, quindi intellettuale) è perciò in pieno accordo con l’idea di una procreazione (verginale), indipendente da ogni rapporto sessuale, di un figlio immune da ogni difetto morale, benché essa non sia esente da difficoltà nel campo teorico (anche se non è necessario, dal punto di vista pratico, stabilire alcunché rispetto alla teoria). B 110 Infatti, secondo l’ipotesi dell’epigenesi, la madre, generata per procreazione naturale, risulterebbe affetta da tale imperfezione e dovrebbe trasmetterla almeno per metà al proprio figlio, nonostante il carattere soprannaturale della procreazione; per evitare tale conseguenza si dovrebbe adottare il sistema della preesistenza dei germi nei genitori, escludendo però la loro presenza nell’elemento femminile (perché altrimenti non si sfuggirebbe alla conseguenza), ammettendoli invece nell’elemento maschile (non il sistema degli ovuli, bensì il sistema degli spermatozoi); questo elemento manca in una gravidanza soprannaturale, quindi la rappresentazione di una nascita verginale, ora teoricamente conforme all’idea di una persona esente da ogni tendenza malvagia, potrebbe essere difesa. Ma a che servono tutte queste teorie, pro e contro, quando basta, in pratica, vedere in questa idea un modello, in quanto simbolo dell’umanità che si innalza al di sopra delle tentazioni del male (cioè che resiste vittoriosamente ad esso)?
Non è questo il momento per dilungarsi in un’analisi sul testo kantiano, e dovremo invece limitarci a osservare come Kant
- colga correttamente, da un lato, che la verginità di Maria è funzionale all’immacolata concezione di Cristo; ma
- si perda in una serie di considerazioni biologiche non esattamente pertinenti; e che infine
- preferisca parafrasare il dato dogmatico nell’asserto di una perfezione morale (di Cristo) non ulteriormente spiegata.
Insomma, nell’intento di “spiegare tutto” Kant demitizza l’asserto dogmatico e di fatto rinuncia a spiegare proprio ciò che c’era da spiegare, ossia come in Cristo sia sorta una vera umanità nuova (la “nova progenies” vagheggiata da Virgilio e ripresa da Sannazaro, quella che sola «cælo demittitur alto» – resta più perspicuo l’esametro latino che la prosa tedesca).
Anche i credenti, però, si sono fatti permeare dallo spirito della modernità, al punto da non cogliere più il punto centrale dello sviluppo dogmatico, che invece risalta adeguatamente in interventi come questa lectio di Enzo Bianchi:
Ciò che questo paradosso vuole significare è che solo Dio ci poteva dare un uomo come lui: Gesù non è nato «da sangue e carne, né da volere di uomo», e questo è stato affermato dai vangeli attraverso la verginità di Maria, diventata madre per la potenza dello Spirito santo.
Un florilegio patristico per il fiore della Vergine (e per il suo Frutto divino)
Può giovare, in tal senso, ripercorrere qualche passaggio saliente della letteratura patristica sul tema, e di quella letteratura in particolare perché è lì che il teologumeno di Maria Vergine e Madre si è sviluppato.
Tutto comincia con una frase dettata da san Paolo verso la metà del I secolo e indirizzata alle comunità dei Galati:
quando giunse la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge, affinché noi ricevessimo l’adozione.
Quasi contemporaneamente, Matteo avrebbe sviluppato un pensiero analogo nel proprio Vangelo, e lo avrebbe collegato alla traduzione greca del libro di Isaia (traduzione fatta dalla comunità giudaica di Alessandria quasi due secoli prima!):
Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio
che sarà chiamato Emmanuele,
che significa Dio con noi.
Da questi due fuochi si sarebbero ininterrottamente sprigionati ellittici cicloni di teologia (ne sarebbe stata mutata per sempre anche la teologia dell’ispirazione scritturistica). Neanche cinquant’anni dopo Paolo e Matteo, Ignazio di Antiochia (martire a Roma all’alba del II secolo) scrisse (agli Efesini):
C’è un solo medico, carnale e spirituale, generato e ingenerato, Dio che è venuto nella carne, nella morte vita vera, da Maria e da Dio, prima passibile e ora impassibile, Gesù Cristo, nostro Signore.
Ecco che si comincia a sistematizzare il dato cristologico: uno solo è Cristo, ma è nato due volte – la prima da Dio in una modalità spirituale che non ha a che fare con la generazione animale, la seconda secondo la carne da Maria. Ma si tratta di un unico e medesimo individuo, non di due. Questa nota avrebbe avuto ripercussioni immense.
Il fatto che Is 7 fosse stato tradotto da ebrei, ad esempio, fu fonte di innumerevoli polemiche proprio tra il nascente cristianesimo e il giudaismo (che frattanto si attrezzava per resistere alla distruzione del Tempio). Nel Dialogo con Trifone Giustino ce ne lascia una testimonianza assai esaustiva: per decine di volte i due tornarono a tormentare il versetto isaiano, nella versione ebraica e in quella greca, e il cristiano utilizzò i versetti per difendere strenuamente il fatto che Maria abbia partorito da Vergine – in accordo alle Scritture ebraiche. Altro non serviva a Giustino, non in quella circostanza.
Pochissimi decenni dopo Giustino, attorno al 180, Ireneo annotò nel IV libro del suo Adversus hæræses, che per il “discepolo spirituale” (ossia per il cristiano che coglie il senso della Rivelazione e non si perde in questioni collaterali) la verginità di Maria è coessenziale alla dottrina della fede:
Quelli che dicono “È uomo, eppure chi lo conoscerà” [Ger 17,9], e ancora “Mi avvicinai alla profetessa, e partorì un figlio, e si chiama Consigliere meraviglioso, Dio forte” [Is 8,3; 9,6], e annunciavano l’Emanuele nato dalla Vergine [Is 7,14], facevano conoscere l’unione del Verbo di Dio con la sua creatura: che il Verbo sarebbe diventato carne e il Figlio di Dio sarebbe diventato Figlio dell’uomo aprendo puramente, egli che è il Puro, la pura matrice che rigenera gli uomini per Iddio e che lui stesso ha reso pura e, divenendo ciò che siamo noi, ha, come “Dio forte” [Is 9,6], una generazione ineffabile.
Come si vede, Ireneo ricuce le profezie messianiche con il filo del Prologo giovanneo, e questo gli consente di
- aprire il ruolo di Maria in una chiara vocazione ecclesiologica; e
- indicare che grazie a Maria e alla Chiesa tutti gli uomini sono chiamati a percorrere, a ritroso, la via del Verbo che viene nel mondo (e dunque a rimontare dal mondo al Padre).
C’è quasi tutto, e siamo ancora nel II secolo. All’alba del terzo si sarebbero distinti due sviluppi, in Oriente e in Occidente. La scuola Alessandrina, infatti, avrebbe elaborato la dottrina della verginità perpetua di Maria, mentre in àmbito latino si sarebbe continuato a insistere, contro gnostici e docetisti (e con esiti assai diversi), sulla verità della carne di Cristo.
Clemente, ad esempio, arguisce che Maria non ebbe mai latte, poiché per la sua fisiologia (che avrebbe avuto seguaci ancora fino all’umanesimo) il latte si doveva non alla maternità ma al “diventare donna”, cioè a quella serie di circostanze (dal rapporto coniugale ai traumi del parto) che rompono i vasi sanguigni – cose che in Maria non sarebbero accadute:
Uno è il Padre di tutti, uno è anche il Verbo di tutti, anche lo Spirito Santo è uno e lo stesso dappertutto; una sola Vergine diventa madre, e mi piace chiamarla Chiesa. Solo questa madre non ebbe latte, poiché essa sola non divenne donna, ma insieme è vergine e madre, intatta come vergine, piena di amore come madre e chiamando a sé i suoi figli li nutre con un latte santo, il Lógos, che conviene a fanciulli.
In Clemente si consolida dunque il vincolo mistico tra Maria e la Chiesa: la funzione di quest’unica-duplice Vergine-Madre è generare figli-nel-Figlio, ossia ricondurre l’umanità a Dio. Sempre in Africa, ma a Cartagine, Tertulliano era impegnato a ribadire che l’umanità di Cristo non fu e non è apparente:
Riconosciamo, dunque, che il segno di contraddizione è la concezione e il parto della vergine Maria, a proposito del quale questi discepoli dell’Accademica così disquisiscono: «La vergine che non è vergine ha partorito senza partorire». Questo linguaggio, ammesso e non concesso che sia lecito esprimersi in tale modo, sarebbe più appropriato, eventualmente, alla nostra dottrina. Maria, infatti, ha partorito ciò che proveniva dalla sua carne, ma non ha partorito ciò che non ha ricevuto dal seme dell’uomo; ella, inoltre, è vergine in rapporto al marito, ma non è vergine per ciò che concerne il parto. […] Colei che ha partorito ha realmente partorito, e se ha concepito vergine è divenuta donna nel parto. È divenuta tale, infatti, per il fatto stesso che nel suo corpo si è verificata un’apertura. Non comporta alcuna differenza lo stabilire se il vigore dell’uomo è entrato in lei o è uscito da lei: è pur sempre una persona del medesimo sesso che ha aperto il suo corpo. È a causa di Maria, infine, che è stata scritta per tutte le donne la regola generale: «Ogni maschio che per primo apre la vulva sarà chiamato santo al cospetto del Signore» [Ex 13,2; Lc 2,23]. Quale santità è più vera di quella del santo Figlio di Dio? Chi ha aperto la vulva più di lui, che è venuto alla luce aprendosi un passaggio in una vulva ancora chiusa? A tutte le donne, del resto, la vulva viene aperta al momento delle nozze. Colei, dunque, che tanto più è stata aperta quanto più era chiusa, dovrà essere definita “non vergine” piuttosto che vergine, essendo divenuta, con una inversione dell’ordine naturale, prima madre che moglie. A quale scopo insistere ancora su tutto ciò? È questo il motivo per cui l’Apostolo ha affermato che il Figlio di Dio è nato non da una vergine ma da una donna.
Tertulliano stesso sembra avvedersi di essere andato un po’ sopra le righe: nella foga di battersi contro gnostici, marcioniti, docetisti e scettici d’ogni risma (uno contro tutti – tipico di questo d’Artagnan della letteratura cristiana antica): siamo nel 212 e il suo De carne Christi resta comunque il primo scritto cristologico della latinità.
Nel frattempo Origene avrebbe seguito la traccia di Clemente, e sempre in Oriente Basilio (nell’omelia in sollemnitatem Christi generationis 5) avrebbe dato rilievo al sentimento popolare, per il quale i cristiani non avrebbero tollerato di sentir parlare della fine della verginità di Maria. Gregorio di Nissa, che di Basilio era fratello, in un analogo sermone In Nativitatem Domini, parlò di un “voto di verginità” formulato da Maria (e il tema avrebbe avuto grande fortuna sia in Oriente sia in Occidente).
Sarà però il caso di restare sulla lezione scioccante di Tertulliano, perché a quella si appellò Elvidio, un teologo laico attivo nella seconda metà del IV secolo, il quale riteneva (non senza qualche ragione storica) che tanta enfasi sulla verginità di Maria si dovesse anche al poderoso sviluppo, in quell’epoca, del monachesimo cristiano. Condivisero le sue parti il monaco Gioviniano di Roma e il vescovo Bonoso di Sardica – tutti furono condannati dal Concilio di Capua, che papa Siricio aveva raccolto a cavallo tra il 391 e il 392.
Ciò fu in qualche modo una consolazione per Girolamo, che in quegli anni (per lui) difficili vide il coronamento della polemica contro Elvidio, condotta quando l’avversario era vivo e vegeto (l’Adversus Helvidium è del 383). Girolamo vi arguiva che l’uso di “donna” da parte di Paolo non va contrapposto a quello di “vergine” da parte di Matteo (e di Isaia), e che è pura fantasia speculare sui successivi figli di Maria e Giuseppe:
Non ce ne vergogniamo, non è che vogliamo passare le cose sotto silenzio: quanto più sono umili le cose che [Cristo] ha patito per me, tanto più gli devo. Al culmine di tutto quanto, poi, c’è la Croce – e niente di più ignominioso si potrà trovare. La croce la confessiamo e la crediamo, e per quella trionfiamo dei nemici.
Ma proprio come non neghiamo le cose che troviamo scritte, così neghiamo quelle che non sono scritte. Che Dio sia nato dalla Vergine lo crediamo, perché lo leggiamo. Che Maria abbia vissuto un matrimonio ordinario dopo il parto non lo crediamo, perché non lo leggiamo. E non lo diciamo perché condanniamo le nozze – la stessa verginità è frutto delle nozze! –, ma perché non è prudente azzardare sulla vita dei santi.
Lo scarno dato “nato dalla Vergine Maria”, peraltro, era stato inserito nel simbolo niceno-costantinopolitano nel 381: è solo una paroletta, certo, però è la stessa a cui si appella Girolamo contro Elvidio, e due anni prima della polemica era stata inserita nel Simbolo. Nei decenni precedenti, inoltre, Zenone di Verona aveva immortalato in una delle omelie confluite nei suoi Tractatus (i,54,5) l’iconica formula della verginità «prima del parto, nel parto e dopo il parto».
L’attitudine teologica si sarebbe consolidata in altri importanti atti magisteriali, come ad esempio le sentenze del Concilio di Toledo I (400) e, più tardi, le condanne dei “Tre Capitoli” nel Costantinopolitano II (553). Il sesto anatematismo recita infatti:
Se qualcuno afferma che la santa gloriosa e sempre vergine Maria solo in un senso improprio e non veritiero è madre di Dio, o che ella lo è “secondo la relazione”, come se da lei fosse nato un semplice uomo, e non in Verbo di Dio che si è incarnato in lei, perché, secondo loro, la nascita di questo uomo si deve riferire al Verbo Dio in quanto unito all’uomo al momento della sua nascita; e se egli accusa il santo sinodo di Calcedonia di chiamare madre di Dio la Vergine nel senso empio immaginato da Teodoro, o se qualcuno la chiama madre dell’uomo o madre di Cristo, come se Cristo non fosse Dio, e non la proclama in senso proprio e secondo verità madre di Dio, dal momento che il Verbo Dio, generato dal Padre prima dei secoli, si è incarnato in essa in questi ultimi tempi, e non riconosce che è con questo sentimento di venerazione che il santo sinodo di Calcedonia l’ha proclamata madre di Dio, costui sia anatema.
Il Costantinopolitano II, come si vede, riporta fortemente la questione del titolo mariano nell’àmbito della riflessione dogmatica cristologica. Un centinaio d’anni più tardi un monaco visigoto, Ildefonso di Toledo, avrebbe invece dedicato un libellus a ragionare De virginitate sanctæ Mariæ in senso polemico diretto, e con questo sarebbe tornato in particolare a farne motivo di contesa contro i giudei. All’incirca negli stessi anni, il Concilio Lateranense (649) avrebbe condannato, fra gli altri, questa dottrina erronea:
Se qualcuno non professa secondo i santi padri in senso proprio e veracemente genitrice di Dio la santa sempre vergine intatta Maria, giacché ella in senso proprio e veracemente negli ultimi tempi ha concepito senza seme dallo Spirito Santo e ha partorito colui che è generato da Dio Padre prima di tutti i secoli, Dio il Verbo, rimanendo inviolata anche dopo il parto la sua verginità, sia condannato.
È una carrellata di testi che non può avanzare alcuna pretesa di esaustività, ce ne rendiamo conto, ma pensiamo che offra ciononostante un campione significativo delle posizioni, delle voci e delle tendenze che si imposero, soprattutto delle ragioni per cui rapidamente prevalse la dottrina della verginità perpetua in connessione con quella della divina maternità (e dipendendone teo-logicamente).
Solo per dare un’occhiata nel mare magnum del secondo millennio, sfogliamo qualche pagina del suo grande campione in fatto di teologia cattolica, san Tommaso d’Aquino. Per il Dottore Angelico, la difficoltà scritturistica sulla virginitas post partum si deve alla menzione evangelica ai “fratelli e sorelle” di Gesù, e a lui non va bene neanche la proposta (già avanzata da molti in passato) per la quale essi andrebbero intesi come figli di primo letto di Giuseppe:
Elvidio dice […] che [Giacomo Minore] viene chiamato “fratello del Signore” perché fu figlio della beata Vergine. Dice dunque che la beata Vergine concepì e partorì Cristo, e dopo il parto di Cristo concepì da Giuseppe e partorì altri figli. Ma questo errore è stato condannato e respinto. Ugualmente risulta essere falso, perché Giacomo non fu figlio di Giuseppe, ma di Alfeo. Altri invece dicono che Giuseppe ebbe prima di Maria un’altra moglie, dalla quale ebbe il figlio Giacomo ed altri. Morta questa, prese in moglie la beata Vergine, dalla quale è nato Cristo; non è stata però conosciuta da Giuseppe, ma [ha concepito] per [opera dello] Spirito Santo, come è detto nel Vangelo. Perché dunque dal padre vengono nominati i vincoli di sangue [cognationes] e Giuseppe fu padre putativo di Cristo, perciò questo Giacomo, anche se non fu figlio della Vergine, tuttavia fu chiamato fratello del Signore. Ma ciò è falso, perché se il Signore non avesse voluto la madre Vergine, ma solo affidare ad un vergine per custodirla, come si potrebbe sostenere che lo sposo di lei non fosse vergine, e così rimanesse?
Il compito della teologia
Il dibattito si squadernerebbe oltremodo, portandoci chissà dove, mentre ci corre l’obbligo di raccogliere gli argomenti. Come si vede da questo sguardo complessivo, la tendenza sistematizzante di certa teologia, che vorrebbe (anche con qualche ragione) ordinare la perpetua verginità, in Maria, “dietro” la sua divina maternità, pecca di una certa ingenuità: le attestazioni della fede dei cristiani, invece, manifestano l’una e l’altra fin da epoche antichissime. Non sempre insieme e non sempre coordinate, certo, ma raccordare i nexus mysteriorum è appunto il compito dei teologi, sarebbe assurdo pretendere di raccogliere torte di mele dai meli solo perché è lì che si sono scorte piccole mele acerbe.
Se restiamo nella metafora, compito della teologia non è solo “fare la torta di mele a partire dalle mele”, ma anche studiare l’“apporto nutrizionale” della stessa (ossia quale sia il peso specifico di questa o quella dottrina all’interno del cristianesimo) e quindi indicare – sia ai cristiani sia ai non cristiani – quando e come consumarla. Ogni dietologo vi dirà che non fate bene a mangiare torta di mele ogni sera prima di andare a dormire; analogamente, ogni teologo vi farà osservare che la divina maternità e la perpetua verginità di Maria non vi invitano a speculazioni di natura ostetrico-ginecologica (chi oserebbe fare “violenza ostetrica” alla Madre di Dio? Il racconto del protovangelo punisce con la lebbra, poi rimessa, la mano imprudente dell’impudente aiuto-ostetrica).
Quando i Padri dicono “ineffabile parto” non invitano a resistere al sapére aude («osa sapere») illuministico, ma – poiché la stessa natura non è tutta attualmente circoscrivibile dall’intelletto umano, e ancor meno lo è il suo Autore – invitano per il momento a un più fattibile sàpere aude («osa assaporare»). Più o meno il senso della nota sentenza dantesca:
State contenti, umana gente, al quia;
ché se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria.
Ci sono dati della rivelazione che cor-rispondono alle domande della ragione, ma che le eccedono in modo che quest’ultima non riesce a com-prenderle ultimamente («Se lo comprendi – diceva per questo Agostino – non è Dio», e i teisti moderni dovrebbero utilmente tornare a questo elemento di critica razionale…): il parto di Maria è indicato da Dante non solo come sommo esempio, di questi dati, ma come loro fondamento – perché il quia, cioè la summa della Rivelazione, non è il parto di Maria ma il suo frutto, ovvero Gesù.
Forse per questo preferisco la tendenza delle antiche icone mariane, a rappresentare sì tre stelle sul manto della Theotòkos, simbolo della sua triplice verginità, ma lasciandone visibili solo due, laddove la terza è occultata proprio dalla persona del Figlio (che nelle icone è sempre raffigurato con le proporzioni di un adulto nelle dimensioni di un bambino). Negli ultimi secoli, invece, se ne sono attestate altre che, forse per lo zelante scrupolo di ricordare all’osservatore/orante come il mistero della maternità/verginità sia triplice (e non duplice)… insistono nel rendere visibile anche la terza stella.
Meglio lasciarla coperta, ritengo: visto che oltre quella soglia la nostra ragione si perde, e proprio per conservarne il Frutto, meglio restare al quia.