Si può dire che abbia letteralmente visto la morte in faccia. Lui si chiama Victor Rouart, è uno dei sopravvissuti alla strage del Bataclan, il più sanguinoso (90 morti, tra i quali anche la ricercatrice italiana Valeria Solesin) degli attentati di matrice islamista che il 13 novembre 2015 terrorizzarono Parigi e la Francia.
Quel venerdì pomeriggio Victor lascia Nantes per andare a Parigi dove lo attendono diversi concerti: gli U2 la domenica sera, i Foo Fighters il lunedì e gli Eagles of Death Metal, proprio quella sera, al Bataclan.
Doveva essere soltanto uno degli abituali venerdì di un ventinovenne passati in allegria nelle uscite del fine settimana. Assieme a lui, ad accompagnarlo al concerto del Bataclan, c’è anche l’amico Pierre. Nessuno dei due può anche solo lontanamente immaginare quanto accadrà dopo le nove e mezza, col gruppo californiano è impegnato a intrattenere la folla all’interno della sala.
I primi rumori sinistri
A un certo punto alcuni suoni strani cominciano ad attirare l’attenzione di Victor. Inizialmente pensa a qualche problema di amplificazione o di sonorizzazione, nulla di grave. Ma man mano che passano i secondi quei rumori però si fanno sempre più presenti e pressanti. Provengono dal retro della sala, dove nel frattempo si fa strada l’angosciante sensazione di un pericolo imminente in arrivo. Una sensazione che si tramuta in gelo quando quei rumori cominciano sinistramente a rassomigliare a esplosioni, a colpi violenti.
La confusione regna sovrana: Vincent si illude ancora per poco che possa trattarsi di un regolamento di conti o di un assassinio mirato. Un ultimo disperato tentativo di rassicurarsi davanti all’orrore che avanza inesorabile. La residua speranza svanisce all’istante quando dall’altra parte della sala spunta un uomo che corre e urla a squarciagola: «Ci sparano addosso!».
L’irruzione delle vere «aquile della morte»
Sono infatti ben altre «aquile della morte» quelle che piombano, al grido di «Allahu akbar!», nella sala del Bataclan: è un commando di tre terroristi islamisti determinati a seminare terrore e morte. Con sé hanno kalashnikov, fucili a pompa, bombe a mano e cinture esplosive. Sarà una terribile carneficina, il più cruento degli attentati dell’«11 settembre francese».
«Cominciava l’incubo. Satana si era invitato alla serata e aveva deciso di fare del Bataclan un inferno sulla terra». Così Victor ricorda l’inizio dell’esperienza più tremenda della sua vita, che sconvolgerà per sempre la sua esistenza. Momenti raccontati, con realismo e dovizia di particolari che lasciano ben poco spazio all’immaginazione, nel libro Comment pourrais-je pardonner? (Éditions de L'Observatoire).
Nessun dettaglio viene risparmiato al lettore: le raffiche di AK-47, i corpi che cadono in un lago di sangue, i gemiti degli agonizzanti. Tra loro c’è anche Victor: il fucile automatico gli porta via 14 centimetri di tibia dalla gamba sinistra, spezzandogli anche la destra. Improvvisamente si trova ad essere trasformato, da semplice cittadino francese, in un soldato in agonia senza aver combattuto alcuna guerra. Riverso a terra. perde sangue, molto sangue, dalla gamba maciullata. Per la prima in vita sua, mentre il suo corpo si vuota di sangue, si trova di fronte all’eventualità della morte.
Una fredda macchina della morte si abbatte sulle vittime
Uno scenario reso ancora più disumano, se possibile, dalla crudeltà estrema del commando jihadista, che si muove come una fredda macchina per uccidere che nemmeno lascia spazio alla possibilità di un’implorazione: «Gli assalitori non facevano che sparare e ricaricare. Sparare e ricaricare. Impossibile implorare loro pietà, avviare una qualunque negoziazione: una forza incoercibile, fredda e meccanica si abbatteva su di noi», ricorda Rouart. Implacabile come Terminator, il gruppo armato islamista avanza «senza rimorsi, senza emozioni» tra le file di corpi riversi a terra per assicurarsi che siano stati tutti uccisi, giustiziandogli gli ostaggi che si fingono morti.
L’unico residuo di umanità, in mezzo a quell’orrore, sorge tra le vittime della ferocia islamista, che si stringono le une alle altre alla stregua di una comunità di destino. «Non eravamo più veramente degli sconosciuti, ma dei compagni uniti dal destino, Ognuno dava prova di gentilezza e benevolenza a riguardo degli altri dall’inizio dell’incubo. Era emersa una forte solidarietà. Sconosciuti prima e durante il concerto, eravamo ormai legati da quell’avvenimento tragico».
Sopravvissuto per miracolo
Ma questo farsi coraggio a vicenda è solo una piccola luce nel buio. Il mondo di Vincent crolla sotto i colpi dei terroristi. Tuttavia il giovane uomo sopravvive e i medici riusciranno anche a salvargli la gamba sinistra che pareva destinata all’amputazione. Victor così si rimette in piedi dopo diverse operazioni e una lunga riabilitazione. Riesce anche a ritrovare una vita normale sul piano motorio, malgrado lo sgradito ricordo dei dolori alle gambe che «fanno ormai parte di me», lo vediamo raccontare a Famille Chrétienne.
Ma i segni fisici non sono naturalmente gli unici ricordi che quest’uomo dallo sguardo dolce, oggi trentaseienne, conserverà a vita nella sua memoria. Nel suo libro Victor Rouart testimonia anche la sua fede cattolica, quasi scusandosi che non sia più evidente e solida, capace di tradursi in una pratica sacramentale più assidua. Ma Victor lo afferma: «Credo in Dio e voglio crederci».
Il massacro del Bataclan, spiega Rouart, non ha fatto altro che rafforzare la sua «certezza dell’esistenza di una trascendenza. Durante la mia convalescenza ho molto pensato a tutto questo. Sono arrivato alla conclusione che Dio mi aveva protetto, che mi aveva mandato un segno conservandomi in vita».
Victor, che non ha timore di definirsi «un miracolato», confessa di aver conservato una immensa gratitudine verso quel Dio che da allora ha cercato di conoscere meglio andando più spesso in chiesa dove, dice, «ho trovato il silenzio e la possibilità di una riflessione personale».
Il «caso serio» del perdono
La sua fede cattolica, come indica il titolo del libro, lo conduce anche a porsi la questione del perdono, riflettendo sull’esempio di padre Jacques Hamel, il sacerdote 85enee sgozzato il 26 luglio 2016 al termine della messa da due islamisti fedeli all’Isis dopo aver gridato, come ultime parole, «Vattene, Satana!», «lontano da me, Satana!».
Tema assai spinoso oggi, quello del perdono. In un tempo in cui il perdono, più che un dono della vittima al carnefice, sembra essere diventato un dovere unilaterale, per non dire uno slogan a buon mercato, il libro di Rouart ha il merito di porre quello che potremmo chiamare il caso serio del perdono. Il perdono non è un colpo di spugna: è ri-creare una comunione spezzata, è l’offerta di una nuova relazione al colpevole, la possibilità di un nuovo inizio. Ma oggi troppi perdoni appaiono più impuri delle colpe, non essendo altro che la maschera di un fatalismo che di cristiano non ha proprio nulla. Il fatalismo è quella rassegnazione al male che finisce per mettere sullo stesso piano la vittima e il carnefice, l’innocente e il colpevole, il bene e il male.
Il rifiuto del fatalismo
Victor Rouart, nel suo libro, afferma di aver visto all’opera questo fatalismo in una certa fretta di passare al prossimo dossier. Come lo hanno inquietato i tentativi – anche da parte dei vertici delle istituzioni repubblicane – di minimizzare, quando non di banalizzare, la spaventosa serie di attentati che ha lasciato dietro di sé una scia di sangue sul suolo francese. Una sconcertante voglia di oblio senza giustizia: una sorta di abusiva infiltrazione del Lete nella terra dei viventi. Niente a che vedere col Dio cristiano che, come diceva Gustave Thibon, è sì indulgenza infinita, ma anche esigenza totale.
Il perdono, ha scritto una volta il cardinale Ravasi, non è affatto una sorta di oblio accettato passivamente. È un atto creativo e creatore: «Nell’atto di perdonare e dell’essere perdonato il cuore dei soggetti si trasforma. Nel perdono nulla è tolto del passato, esso viene trasformato».
Quando la collera è santa
Anche Victor sa che il perdono è liberante: «I cristiani sono portati a perdonare i loro nemici, e perfino ad amarli. Un perdono che libera anche la vittima o la persona offesa da ogni forma di odio e le restituisce una forma di pace interiore». Al tempo stesso, come osservava Fabrice Hadjadj proprio al tempo degli attentati del 13 novembre, se è vero che «la vita è comunione prima di essere battaglia, è dono prima di essere lotta», non dobbiamo nemmeno dimenticare che «poiché questa vita è ferita fin dall’origine, incessantemente attaccata dal Maligno, occorre lottare per il dono, combattere per la comunione, impugnare la spada per estendere il Regno dell’amore».
Ecco perché, sembra dargli manforte Rouart, «esistono delle collere sante, e sane. Quelle che difendono, senza spingersi fino al peccato, i nostri princìpi. I valori di carità, condivisione e tolleranza della cristianità sono una ricchezza inestimabile. Ma bisogna proteggerli, difenderli».
Il vero perdono? È quello difficile
«Sono privo di odio, di qualunque sentimento di vendetta», afferma Victor. Ma il problema qui è che manca, da parte dei carnefici e dei loro complici, la minima ammissione di colpevolezza. Nessuna traccia di pentimento. Come perdonare chi non si ritiene colpevole di nulla? «Per dare e ricevere un perdono bisogna che si incontrino le due volontà: quella del colpevole e quella della vittima. Nel caso dell’attentato del Bataclan non è così... ».
Non sarà inutile osservare che anche le ferite dell’animo richiedono tempo per rimarginarsi. Come ha detto Paul Ricoeur, il vero perdono è un perdono difficile, che prende maledettamente sul serio la tragedia. E che soprattutto non stride col desiderio di giustizia. Non è questione di calcolare, ma di sciogliere dei nodi interiori. Ben venga allora ogni invito a meditare sulla serietà estrema del perdono. Perché senza distinguere il bene dal male – come accade inevitabilmente in società dominate dal relativismo come le nostre – anche perdonare diventa impossibile.