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L’adolescenza e la vocazione del giovane Ratzinger

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Lucia Graziano - pubblicato il 31/12/22
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Si è molto discusso sull’adolescenza di Joseph Ratzinger, che ebbe a crescere in una Germania oppressa dal nazismo e straziata dalla guerra. Ma come visse davvero il futuro papa negli anni che precedettero la sua ordinazione sacerdotale?

Joseph Ratzinger ebbe la fortuna di poter godere di un’infanzia serena, vissuta nella quiete di una piccola “chiesa domestica” unita dall’affetto e dalla preghiera. E tuttavia, la tranquillità di quei primi anni non era necessariamente sinonimo di spensieratezza; nel 1997, dando alle stampe la sua autobiografia, il futuro pontefice descrisse in questi termini la sua fanciullezza: «sentivamo che il nostro sereno mondo infantile non era affatto incastonato in un paradiso». Una gravissima crisi economica stava mettendo in ginocchio la Germania e il clima politico si faceva incandescente: «anche se non comprendevo in tutti i particolari quel che stava avvenendo, nella mia memoria è rimasto molto chiaro il ricordo degli appariscenti manifesti elettorali e dei continui scontri politici a cui essi rimandavano». Facendo riferimento al lavoro paterno, che era agente di polizia, Ratzinger ricordò che «nelle adunanze pubbliche, mio padre doveva intervenire sempre più di frequente contro le violenze dei nazisti»; e, sebbene i genitori cercassero di non parlare di politica di fronte ai figli, persino i bambini piccoli avvertivano «molto chiaramente l’enorme preoccupazione che gravava su di lui e che egli non riusciva a scrollarsi di dosso nemmeno nei piccoli gesti di ogni giorno».

Naturalmente, alle preoccupazioni di natura pratica si univano enormi scrupoli morali: l’uomo «soffriva molto per il fatto di dover stare al servizio di un potere statale, i cui vertici considerava dei criminali». Quando il clima politico divenne completamente insostenibile e fu chiaro tutti che un agente di polizia del Terzo Reich sarebbe stato presumibilmente costretto a compiere gesti contrari a qualsiasi etica, il signor Ratzinger preferì abbandonare il lavoro prendendo un lungo periodo di congedo, in attesa dell’età pensionabile che sarebbe comunque arrivata nel 1937. Fu allora che la famiglia impegnò i suoi risparmi per comprare una graziosa casetta nel villaggio contadino di Hufschlag, nel sud-est della Baviera, non lontano dalla città Traunstein; e fu proprio lì, ai piedi del monte Hochfelln, che la fede di Joseph Ratzinger maturò e diventò adulta.

Nelle vesti di chierichetto della parrocchia locale, il futuro pontefice ebbe modo di sperimentare una religiosità viva e intensa, scandita da Messe quotidiane, preghiere comunitarie e processioni solenni lungo le vie del borgo. Non era infrequente che il ragazzo partecipasse a più di una Messa al giorno: poteva capitare che lui, da sempre mattiniero, servisse all’altare nella prima celebrazione per poi tornare in chiesa più tardi, nel corso della giornata, assieme al resto della sua famiglia. In un ragazzo cresciuto in un clima di così forte spiritualità, la vocazione sacerdotale trovò terreno fertile in cui germogliare: nella domenica di Pasqua del 1939, Joseph Ratzinger entrò nel seminario minore, seguendo le orme del fratello che già a partire dal 1935 aveva intrapreso la stessa strada.

L’orrore del nazismo, lo strazio della guerra

Ma il 1939 era anche l’anno in cui le sorti della Germania erano tragicamente destinate a precipitare, con l’invasione della Polonia e lo scoppio della guerra. Il futuro papa ebbe la fortuna di trovarsi in un seminario in cui non erano presenti compagni di classe nazisti e gli insegnanti erano pronti a tendere una mano agli studenti (in particolar modo, il docente di matematica lo aiutò a evitare le riunioni della Hitlerjugend cui, a norma di legge, avrebbero dovuto partecipare tutti i ragazzi al di sopra dei quattordici anni). «Si sapeva che alla lunga la Chiesa avrebbe dovuto scomparire, insieme al sacerdozio. Per noi era chiaro che in quella società non avremmo avuto un futuro», ricordò Ratzinger nelle sue Ultime Conversazioni con Peter Seewald, aggiungendo una confidenza così tenera e intima da strappare (più di) un sorriso: «per me personalmente, inoltre, la prospettiva divenne fatale quando l’educazione fisica diventò materia di esame alla maturità e si veniva bocciati se non si era bravi nello sport». Nel contesto di una dittatura genocida, questa preoccupazione potrà forse sembrare di poco conto: ma Ratzinger era sempre stato pessimo in Ginnastica, e all’epoca temette seriamente che sarebbe rimasto senza diploma (e dunque, senza la possibilità di proseguire i suoi studi teologici) se la situazione fosse rimasta immutata!

A consolare gli studenti del seminario c’era però un barlume di speranza (purtroppo ingiustificata): «eravamo convintissimi che il nazismo non sarebbe durato a lungo» e che anzi «la guerra sarebbe finita presto perché credevamo che la Francia e l’Inghilterra fossero chiaramente più forti». Purtroppo, le cose non andarono esattamente così.

Nel 1943, Ratzinger fu chiamato al servizio di leva sulle basi di un decreto per cui tutti i convitti esistenti sul territorio nazionale (seminari inclusi) avrebbero potuto essere trasferiti in sedi diverse, con convittori al seguito, secondo le esigenze dello Stato.

E così accadde anche a Joseph Ratzinger e a un piccolo gruppo di suoi compagni di classe: i giovani furono trasferiti in un caseggiato nei pressi di Monaco e incaricati di compiere lavori di manovalanza a supporto della difesa antiaerea. Al compimento della maggiore età venne il trasferimento in un altro reparto, che vide il futuro papa impegnato a ripristinare i binari danneggiati dai bombardamenti e, in un secondo momento, a rinforzare le fortificazioni che correvano lungo la linea del fronte con l’Ungheria.

E poi, nei primi mesi del 1945, avvenne l’imprevedibile: Joseph Ratzinger decise di disertare («col senno di poi mi stupisco della mia ingenuità», ammise negli ultimi anni della sua vita, confidandosi a Peter Seewald: «perché me ne sia andato a casa con tanta disinvoltura in verità non riesco a spiegarmelo»; razionalmente, anche lui era consapevole del fatto che «un’impresa simile poteva solo fallire»).

Contrariamente a ogni ragionevole prospettiva, il ragazzo tornò a casa sano e salvo. Di lì a poco, la guerra si concluse e la Germania tornò lentamente a una normalità che sembrava ormai lontana: verso la fine del 1945, Joseph Ratzinger poté riprendere gli studi in Teologia presso il seminario maggiore di Frisinga (…e senza aver dovuto sostenere alcun esame di Educazione Fisica!).

Un seminarista destinato a grandi cose

Quelli del seminario maggiore furono, per Joseph Ratzinger, anni estremamente stimolanti sotto il punto di vista intellettuale. Lo sceneggiatore tedesco Georg Lohmeier, che era stato suo compagno di studi in seminario, ebbe a ricordare il futuro papa come un alunno modello, sempre chino sui libri «una specie di San Bernardo. Ricordo di aver pensato, all’epoca, che forse sarebbe diventato un Dottore della Chiesa».

Ma, chiaramente, quel tempo di formazione non fu solamente un periodo di crescita intellettuale ma anche di profonda maturazione spirituale. Come il futuro papa avrebbe poi ricordato nelle sue note autobiografiche, gli orrori della guerra avevano fatto risplendere di nuova luce la sua vocazione sacerdotale: in lui, e in molti suoi compagni di corso, c’era la volontà comune di dedicarsi con anima e corpo al servizio della Chiesa per fondare una nuova Germania e un mondo nuovo, in cui non avessero più a ripetersi gli orrori agghiaccianti e umanamente imcomprensibili di cui si era stati sgomenti testimoni.

Joseph Ratzinger fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1951 assieme a suo fratello, il cui percorso di studi era stato inevitabilmente rallentato dalla guerra. La loro prima Messa si tenne l’8 luglio nella chiesa di Sant’Oswald a Traunstein, la parrocchia in cui era nata la vocazione dei due giovani; e, a tal proposito, nel suo memoriale dedicato a Mio fratello il papa, Georg Ratzinger volle condividere un aneddoto curioso ma significativo al tempo stesso.

Poiché all’epoca non si facevano concelebrazioni, i due novelli sacerdoti celebrarono due Messe separate: «mio fratello il mattino alle 7.00 e io due ore dopo, alle 9.00. La sua cerimonia era accompagnata da canti popolari» (e forse anche non troppo frequentata, vista l’ora, verrebbe da immaginare): «la mia invece era solenne. Joseph pensava che fosse giusto così, in quanto io ero molto vicino al coro»; in effetti, Georg Ratzinger dedicò alla musica sacra gran parte della sua vita. Quando al futuro pontefice «lui era pronto a occuparsi di un ufficio divino anche meno importante» e anzi chiese al parroco di Traunstein «di scegliere i canti più facili dell’innario, in modo che i fedeli li conoscessero». Alla prova dei fatti, stando a quanto dice Georg, «i partecipanti alla funzione non furono molto bravi e anche il coro dei bambini commise degli errori». E la Messa novella del futuro papa si svolse proprio così: all’alba, nella semplice intimità di una chiesetta di campagna, tra canti popolari e piccoli coristi che, di tanto in tanto, prendevano una stecca.

«Io non avrei mai osato presentarmi come Reverendo»

Sul suo invito per la prima Messa, Joseph Ratzinger aveva voluto far stampare questo motto: «non siamo i padroni della vostra fede, ma i servi della vostra gioia». Quando Peter Seewald gli chiese conto di questa scelta, Benedetto XVI argomentò che, nei suoi anni di seminario, «nell’ambito di una concezione moderna del sacerdozio», era maturata in lui «la consapevolezza che l’idea del reverendo è sbagliata, e che il prete è sempre un servo». Non solo: il futuro papa aveva anche svolto «un grosso lavoro interiore su questo concetto per non salire su un piedistallo troppo alto. Io non avrei mai osato presentarmi come «reverendo». Essere consapevoli che noi sacerdoti non siamo padroni, ma servi, dal mio punto di vista non era solo consolante, ma anche importante per poter accettare l’ordinazione. Pertanto consideravo questa frase un motivo centrale».

Un motivo centrale che lo accompagnò per sempre, se pensiamo ai termini in cui il pontefice neo-eletto si presentò al mondo affacciandosi dal balcone di san Pietro. Si definì «un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore»: e quanto è significativo venire a sapere che, con quelle parole, Benedetto XVI esprimeva una visione di sé che l’aveva accompagnato lungo tutto il corso della sua vita, a partire dal suo primissimo atto come novello sacerdote.

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