Dovendomi occupare quotidianamente di cronaca mi capita spesso di incappare in notizie come quella di qualche giorno fa sul maxi sequestro della Guardia di finanza ai danni di alcuni colossi della logistica (si chiama così oggi il facchinaggio). Giganti commerciali che, a quanto pare, sono soliti esternalizzare la manodopera appaltando ricerca e gestione del personale, cito testualmente dall’edizione milanese del Corriere della Sera, a una girandola di «apparenti cooperative – che in realtà sono società-serbatoio di manodopera che nascono, muoiono, non pagano l’Iva, manipolano le buste paga, e si passano i lavoratori come in una transumanza – emettono fatture verso società-filtro, di solito consorzi privi di lavoratori che però rifatturano le asserite prestazioni ai clienti finali, cioè ai committenti».
Lavoratori trattati come gregge
Notare la parola «transumanza» applicata a lavoratori evidentemente ridotti a un gregge senza dignità, utile solo ad abbassare l’ormai arcinoto «cuneo fiscale»: bassa manovalanza da far lavorare a prezzi stracciati per permettere alle imprese – perlopiù di proprietà estera – di essere competitive sul mercato.
Lavoratori trattati come spazzatura
Sempre in Italia – nello sviluppatissimo Nord del Paese – a novembre c’è stato il caso dei lavoratori di una fabbrica di materassi che dall’oggi al domani si sono visti licenziare dopo aver subito il dimezzamento dello stipendio in estate. Anche loro – una sessantina di addetti alla logistica, tutti migranti originari di Bangladesh, Sri Lanka, Egitto, Marocco, Egitto – finiti da anni nell’inferno delle cooperative a cui viene affidata la gestione della logistica. Da notare che fino a due anni fa lavoravano dalle sette di mattina alle sette di sera, fine settimana compresi, alzando 400-500 materassi ogni giorno. Uno di loro ha spiegato all’Agi le ragioni di una protesta per un licenziamento «comunicato dalla sera alla mattina, come se fossimo spazzatura da gettare via».
Lavoratori scaricati via mail
E per finire, si fa per dire, in bellezza saltiamo oltreoceano: con l’ineffabile Elon Musk, il magnate fresco patron di Twitter. Dove ha esordito, sempre a inizio novembre, col brutale taglio di metà della forza lavoro, “avvertita” a notte fonda del licenziamento da una mail che invitava a non presentarsi il giorno dopo sul luogo di lavoro e a aspettare un messaggio di posta elettronica per apprendere chi sarebbe rientrato tra i “sommersi” e chi tra i “salvati” che avrebbero conservato il posto.
Anche in questo caso è utile leggere il commento di uno dei dipendenti (circa 3.700) finiti tra i “sommersi”: «Ci ha bloccato il pc e scaricati con una mail di notte».
Una dignità calpestata senza ritegno
Lavoratori «scaricati» e ridotti a «transumanza», anzi a «spazzatura». Parole che dicono tutto di una dignità fatta a pezzi, liquefatta, evaporata, umiliata. Tre esempi per dire quanto sia tragica la situazione del lavoro nel mondo di oggi.
Lo so, a parte papa Francesco che denuncia la cultura dello scarto, non è che ci sbracci molto tra cattolici per situazioni come queste. Eppure soprattutto i cattolici che dicono di essere pro-life dovrebbero prendersi particolarmente a cuore la questione del lavoro.
Sì, perché è proprio la dottrina sociale della Chiesa a fondare il diritto al lavoro sul diritto alla vita. Lo insegnava già Pio XII nel Messaggio di Pentecoste del 1941 dove parlava del «diritto naturale di ciascun individuo a fare del lavoro il mezzo per provvedere alla vita propria e dei figli». E per dare un fondamento a questo diritto naturale papa Pacelli lo metteva subito in relazione con quello più essenziale della conservazione della vita, «tanto altamente è ordinato per la conservazione dell'uomo l'impero della natura».
A suo tempo Leone XIII derivava immediatamente, dal diritto alla vita, il diritto a un salario sufficiente. «Perché senza di esso – incalzava Pio XII - non si può procurare ciò che è indispensabile alla vita, mantenere la quale è un dovere naturale, grave, individuale». E ancora, nel Messaggio di Natale del 1942, Pio XII annoverava tra i «fondamentali diritti della persona» il «diritto di lavorare come mezzo indispensabile al mantenimento della vita familiare».
Pro-vita e pro-famiglia sì, ma anche pro-lavoro
Non si scappa: non si può essere pro-life e pro-family senza essere anche pro-job. Lo direbbe pure il Salmista: «Non comprendono nulla tutti i malvagi, che divorano il mio popolo come il pane?» (Sal 13,,4; 52,5).
Se il nostro pasto deriva dallo sfruttamento di un povero – fa notare Fabrice Hadjadj a proposito di questo passo -, dato che traiamo quel pasto da una ingiustizia, cos’altro siamo se non dei cannibali? Cos’altro facciamo se non stritolare quel povero assieme al nostro cibo? Perché, spiega Hadjadj, non c’è «masticazione diretta, ma masticazione reale».
E notare che qui il geniale filosofo parla della «modesta proposta» di Jonathan Swift per risolvere il problema dei bimbi delle classi povere. Che altro non era, nella provocazione dello scrittore irlandese, se non quella di venderli come pietanza prelibata alle classi più ricche della società.
Ci sono dunque tante forme di cannibalismo con cui i ricchi, i forti e i potenti possono prosperare sulla vita dei più deboli: sui bimbi non nati (con l’aborto, per conservare il proprio benessere) come sui lavoratori (ai quali si nega il necessario per procurare il pane per sé e per la propria famiglia). In un caso come nell’altro è sempre la vita a essere oppressa.
Il legame tra lavoro e vita
Anche Hannah Arendt annovera il lavoro tra le tre attività fondamentali della nostra esistenza: quella con cui l’uomo deve fare i conti con l’ambiente naturale per assicurarsi la propria sopravvivenza. «L'attività lavorativa – scrive in Vita activa - corrisponde allo sviluppo biologico del corpo umano, il cui accrescimento spontaneo, metabolismo e decadimento finale sono legati alle necessità prodotte e alimentate nel processo vitale dalla stessa attività lavorativa. La condizione umana di quest'ultima è la vita stessa».
Naturalmente l’uomo è più che un semplice animal laborans: è anche homo faber che coopera al progetto creativo di Dio. Il lavoro è complemento dell’opera creatrice di Dio. E allora non stupisce che l’insegnamento sociale della Chiesa – senza cancellarne gli aspetti di penosità – consideri il lavoro come strumento di elevazione a Dio, espressione necessaria della persona, strumento di comunione tra gli uomini, parli addirittura di una dimensione soprannaturale del lavoro.
Il magistero di Biffi sul lavoro
Così come non stupisce leggere la forza con cui uno degli uomini di Chiesa che più hanno difeso il diritto alla vita dei più piccoli dalla piaga dell’aborto – il cardinale Giacomo Biffi (1928-2015) – ha preso le parti del diritto al lavoro. Da non molto è uscito infatti un volumetto dal titolo La festa della fatica umana (ESD) che raccoglie le sue riflessioni in occasione della festa del Primo Maggio. Una specie di summa sociale biffiana, una sintesi del suo pensiero sulla dottrina sociale della Chiesa.
Nelle omelie del grande arcivescovo di Bologna tra il 1984 e il 2003 si può quasi tastare con mano la brillantezza e l’arguzia che lo hanno reso uno dei protagonisti di spicco della vita ecclesiale e, perché no?, anche sociale e culturale del nostro Paese. E si scopre che il cardinale, col solito umorismo capace di abbinare lucidità e limpidezza – cosa già rara – denunciava tutte le alienazioni del lavoro già sottolineate dal magistero della Chiesa:
1) il lavoro-macchina: il lavoro assimilato a un ingranaggio della grande organizzazione meccanica del lavoro, cosa tra cose nel processo di produzione;
2) il lavoro-merce: il lavoro ridotto a una merce agganciata alle fluttuazioni del mercato, che diventa solo un costo da abbattere;
3) il lavoro-sfruttamento: il lavoro ingiustamente retribuito, una delle forme più note di oppressione dei lavoratori, logica conseguenza delle prime due alienazioni.
Tutte alienazioni oggi estremizzate a livello patologico nel lavoro-scarto, nel lavoro-transumanza e nel lavoro-spazzatura a cui accennavamo all’inizio.
Una denuncia profetica
Nel maggio del 1989, pochi mesi prima del crollo del muro di Berlino, il cardinale vedeva già crescere «un potere finanziario chiuso nei suoi giochi, senza veri legami con l’impegno produttivo e il mondo del lavoro. La proprietà di una azienda, e quindi la sua sorte, finisce in mano sempre più frequentemente a amministrazioni lontane, dominate da altre società a loro volta sotto il controllo di terzi, con un sistema di appartenenze multiple e di interdipendenze così complicato e incontrollabile che alla fine non si sa proprio dove stiano le sorgenti decisionali. In questo contesto un’unità lavorativa può essere venduta, acquistata, spostata, fusa, riconvertita, annullata, da chi non l’ha mai visitata neppure occasionalmente, e schiere di uomini vedono deciso il loro destino di lavoratori da una dominazione anonima che conosce soltanto le cifre del mercato borsistico e la consistenza dei pacchetti azionari».
Parole a dir poco profetiche per descrivere uno scenario che Biffi già allora definiva «inquietante» e che «non può essere accettato supinamente». E la Chiesa, aggiungeva, se non ha soluzioni tecniche da proporre ai problemi del lavoro (non è il suo compito), «nemmeno può esimersi da richiamare l’attenzione sui pericoli che corre la dignità dell’uomo» nella moderna organizzazione della società per come si va delineando nel mondo occidentale (ma non solo ovviamente). Attenzione: dignità dell’uomo, non solo del lavoratore.
San Giuseppe come modello della giustizia cristiana
Gli anticorpi suggeriti da Biffi sono gli stessi indicati dalla dottrina sociale della Chiesa: in primo luogo il richiamo al primato della persona umana, al principio di sussidiarietà come cardine delle relazioni sociali, con la centralità della famiglia affermata dalla Quadragesimo anno di Pio XI, per cui il salario deve essere proporzionato non soltanto alle necessità del lavoratore, ma anche a quelle della sua famiglia. Ma nel magistero sociale di Biffi c’è spazio anche – forse soprattutto – per una spiritualità del lavoro che fa di San Giuseppe, patrono dei lavoratori, il suo modello più alto.
Non c’è giustizia sociale, ripete Biffi, senza giustizia interiore. Senza una vita spirituale anche la vita sociale deperisce. Da qui la necessità di imitare San Giuseppe, di guardare a colui che la parola di Dio presenta come giusto: «San Giuseppe, prima e più che esigere la giustizia – fa osservare il cardinale – si preoccupava di essere giusto lui. Così è il cristiano: primariamente non è uno che protesta, è uno che si impegna a fare il proprio dovere. Il suo assillo più grande è quello di cercare, giorno dopo giorno, nel suo lavoro e nella sua vita, la conformità all’ideale che Dio gli ha assegnato. Il primo campo in cui vuol mettere ordine è il suo personale comportamento e il suo mondo interiore».
Come legare giustizia personale e giustizia sociale
Dopo aver fatto ordine e stabilito la lista delle priorità va fissata però anche quella delle conseguenze, aggiunge Biffi: «Una volta però che questa tensione verso la giustizia personale si fa viva e forte in lui, e proprio in virtù di questa tensione, si adopererà anche a rendere più corrispondente a equità il mondo in cui vive e gli ordinamenti sociali».
In questo sono maestri i santi, i più abili costruttori di ponti tra giustizia personale e giustizia sociale, tra vita spirituale e vita materiale. La sola via da cui ripartire per ridare all’uomo quella dignità oggi minacciata da ogni parte.