Vigilia di Natale del 390, la basilica Portia di Milano risplendeva di mille facelle. Arazzi e tappezzerie purpuree facevano bella mostra di sé, mentre ampie e profumate volute d’incenso si levavano dai turiboli verso le volte della chiesa – l’assemblea frattanto intonava quegli stessi inni che il vescovo Ambrogio aveva introdotto nella liturgia (e ne aveva anche scritto buona parte…) per meglio celebrare le lodi divine.
Lo spettacolo, magnifico, sembra già di per sé una caparra di paradiso: Cristo è nato, la seconda persona della Santissima Trinità si è abbassata fino ad assumere la natura umana. Grave al centro del tripudio comune, Ambrogio si dirige verso il portico, chiuso, che con un cenno chiede di aprire.
In ginocchio sul sagrato
Lì sul sagrato un uomo sta umilmente inginocchiato, a testa bassa, vestito di una semplice tunica, nell’attitudine tradizionale dei penitenti venuti a implorare dalla Chiesa la remissione delle censure che li colpiscono e la loro reintegrazione nella comunità cattolica. All’epoca non si conosceva la confessione auricolare, e la scena era relativamente frequente (comunque la si riservava per peccati molto gravi): un grande peccatore non poteva ottenere il perdono se non a prezzo di pesanti, lunghe e faticose penitenze – pubbliche, per di più. La prova può durare anni, talvolta tutta la vita.
L’uomo che sta in ginocchio sul sagrato è un grandissimo peccatore, colpevole della morte di migliaia di innocenti, vittime di una tendenza alla collera che egli non ha mai saputo né voluto controllare, difetto esacerbato da quando detiene il potere supremo. Di tanta potenza egli ha crudelmente abusato, credeva di averne il diritto – mentre aveva torto e poiché, malgrado i suoi eccessi, è un cattolico sincero, accetta di pagarne il fio. Sembra una cosa da niente, ma la scena che si svolge sul sagrato della basilica milanese è una delle più determinanti della Storia: essa fu un precedente clamoroso per più di quindici secoli di relazioni tra la Chiesa e il potere temporale, e getta le fondamenta della monarchia cristiana.
L’uomo prostrato davanti ad Ambrogio, infatti, si chiama Teodosio e sarebbe stato detto “il Grande”: è attualmente il detentore della porpora imperiale. Per la prima volta nella storia dell’umanità, un monarca assoluto (categoria di per sé avvezza a imporre ai sudditi qualsivoglia capriccio), riconosce al di sopra di sé una potenza a cui un giorno dovrà rendere conto. Il trionfo di Cristo su Cesare è la vittoria di Ambrogio, fragile cinquantenne emaciato dalle veglie, dalle preghiere, dai pensieri, dal lavoro, ma animato da una cura animarum per la quale non guarda in faccia a nessuno.
La verità sbattuta in faccia
La storia era cominciata nella primavera precedente nella città greca di Tessalonica, dove due uomini si disputavano i favori di un bel ragazzo… Uno era un famoso pilota di carri, idolo delle folle; l’altro il governatore della città, Butherikos, che per sbarazzarsi d el rivale si serve di una nuova legislazione imperiale che reprime la pratica omoerotica per arrestare il campione, sbatterlo in carcere e poi detenerlo malgrado le petizioni dei fan. Giocare con le passioni sportive della folla può essere pericoloso, e Butherikos lo impara a proprie spese. Il rifiuto di liberare l’auriga provoca delle sommosse e, a luglio, il politico finisce massacrato dai giocatori, in crisi d’astinenza da scommesse, che vanno di corsa a liberare il campione.
La notizia dell’omicidio arriva a Milano, una delle capitali imperiali, dove Teodosio si era installato all’inizio di agosto. Incidenti del genere non sono rari, e il potere imperiale li affronta con pragmatismo – le sanzioni, quando è il caso, si limitano alla riparazione dei danni con gli interessi (onde evitare di aggravare le tensioni e il malcontento).
Teodosio però non si attiene a questa linea di condotta, ma si fece prendere la mano. Alto ufficiale, non aveva ereditato la porpora, ma se ne era impossessato – prima in Oriente, all’indomani del disastro militare di Adrianopoli, nel 378, poi in Occidente approfittando della debolezza del giovane imperatore Valentiniano II, un adolescente di fronte a usurpatori più potenti di lui. Quindi è rientrato nella famiglia imperiale sposando la sorella di Valentiniano, la principessa Galla.
Divenuto indispensabile, Teodosio è il padrone del gioco politico, e nessuno osa opporsi a lui. A parte il vescovo Ambrogio, aristocratico romano della vecchia scuola, che il passato di altissimo funzionario imperiale ha reso familiare agli ingranaggi del potere e della macchina amministrativa. A più riprese, con la libertà di tono e l’audacia di chi pone in Dio la propria fiducia, e non negli uomini, Ambrogio sbatte in faccia a Teodosio la verità, e in pubblico. Allora l’imperatore, umiliato, non fa mistero di detestare il vescovo di Milano, col quale pure è costretto a venire a patti. Ambrogio lo sa, ma non cambia attitudine: «Non ho predicato contro di te, ho predicato per te!», gli rinfaccia un giorno quando Teodosio gli rimproverava di aver attaccato la sua politica religiosa in un sermone. Ma l’imperatore finse di non cogliere la sfumatura: non era lui il padrone dell’Impero, che non ha lezioni da prendere da nessuno – neanche dalla Chiesa? Divenuto diffidente, proibì che si toccassero davanti ad Ambrogio i temi dibattuti nel consiglio dei ministri.
Una decisione orribile
Il 10 agosto 390, l’imperatore decide di rimettere i pesi al loro posto: invece di abbozzare, ordina una rappresaglia di severità inaudita – le truppe mandate sul posto avrebbero passato a fil di spada un decimo della popolazione di Tessalonica, a casaccio (vecchi, donne, bambini, viaggiatori e turisti compresi…). Teodosio era talmente furibondo che nessuno di quelli vicini a lui osò denunciare l’ingiustizia e l’orrore della sua decisione, né disobbedirgli avvertendo Ambrogio – l’unico capace di tenergli testa.
Il vescovo non fu avvertito che il 18, e per via di indiscrezioni. Otto giorni dopo la partenza degli ordini imperiali. Teodosio non prova alcun rimorso, è vittima della hybris – termine greco che designa il senso di smisuratezza del proprio potere –, la malattia che fa perdere ai potenti il senso della realtà, aggravata nel suo caso dalla sua accettazione (scandalosa in ambito ecclesiale) dei vecchi titoli imperiali pagani. Non si può esigere di essere chiamati “divini imperatori” tutta la giornata senza finire per dimenticare di essere mortali come tutti gli altri – ne va della salvezza della propria anima, e neanche lo si riesce più a vedere.
Questa realtà sconvolge Ambrogio e lo spinge a precipitarsi nel palazzo imperiale. Davanti all’imperatore dice, con evidente dolore: «Ti sei scordato di essere cristiano?». Sì, Teodosio l’ha dimenticato. Tornato improvvisamente in sé, egli prende coscienza dell’orrore del suo atto, firma un contrordine che deve partire immediatamente (ma che non partirà se non due giorni dopo – rallentato da alcuni ministri poco inclini a vedere l’imperatore sconfessarsi per compiacere la Chiesa). Quando il contrordine arriva a Tessalonica, il peggio ha già avuto luogo, il massacro è stato perpetrato. Alcuni storici parlano di 70mila morti, cifra indubbiamente esagerata, ma è certo che migliaia di persone sono morte in quella rappresaglia ingiusta e sproporzionata.
«Se sei cristiano…»
La notizia del massacro arriva a Milano mentre Ambrogio presiede un conciaio di vescovi italiani e galli, e li lascia attoniti. La storia romana non conosce precedenti a una simile mostruosità, e doveva essere un imperatore cattolico a rendersene colpevole! Per essersi coperto di sangue innocente, Teodosio merita la scomunica. Deve fare penitenza. Bisogna andare a dirglielo, ma nessuno dei vescovi trova il coraggio. A parte Ambrogio, che non indietreggia mai quando si tratta di Cristo, della Chiesa e della salvezza delle anime. Cosciente di rischiare anche la testa (o, se gli va bene, la cattedra), scrive all’imperatore una lettera mirabile:
A Tessalonica è accaduto qualcosa di atroce, di inaudito. Soffro nel vedere te, un modello di pietà come non si era ancora visto, tu che praticavi la più alta clemenza e non sopportavi di assistere neanche all’esecuzione dei colpevoli, accettare senza compassione la morte di tanti innocenti… […] Molte azioni ti sono valse delle lodi, ma era la tua pietà a coronare la tua gloria, e il diavolo è diventato geloso del meglio che possedevi. Questo crimine odioso peserebbe anche sulle mie spalle, se né io né altri ti dicessero che devi riconciliarti con Dio. Non sei che un uomo. Il peccato è avvenuto. Ebbene, toglilo.
Non oserei offrire il santo sacrificio, se tu ti presentassi in chiesa e pretendessi di assistere. Mi è proibito celebrare in presenza di chi ha versato il sangue anche di un solo innocente, e come potrei celebrare davanti a chi ha versato il sangue di tanti infelici? Non penso di averne il diritto. Scrivo questa lettera di mio pugno, e sarai tu l’unico a leggerla. Se sei cristiano, farai quello che ti chiedo. Se no, perdonami per quello che faccio. La mia preferenza va a Dio.
Benché espressa con immensa delicatezza, si tratta di una irrogazione di scomunica, e Ambrogio non l’avrebbe rimessa fino a quando non fosse stata espletata pubblica penitenza. Teodosio lo sapeva, e soprattutto ammetteva che il vescovo aveva ragione. E allora, pubblicamente, avrebbe chiesto perdono. Dopo questo Natale, niente sarebbe più stato come prima, perché la legge divina avrebbe prevalso sui cranici dei potenti. Grazie a Dio.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]