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Flor María Rigoni, il sacerdote italiano voce dei migranti e dei rifugiati

COLOMBIA
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Lucía Chamat - pubblicato il 07/12/22
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Una croce di legno, pesante e rovinata, che porta alla vita è testimone delle peripezie di questo missionario scalabriniano che ha donato la sua vita ai migranti

Florenzo Rigoni o Flor María, come lo hanno battezzato quando è arrivato in Messico nel 1985, ha girato il mondo lavorando a favore dei migranti. Attualmente dirige le opere sociali della Corporazione Scalabriniana in Colombia.

Il carisma della sua comunità, fondata da San Giovanni Battista Scalabrini, è costituito dall'assistenza ai migranti, a cui padre Flor ha dedicato i suoi 53 annni di sacerdozio in Europa, Asia e America.

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Aleteia ha parlato con lui a Villa del Rosario, alla frontiera tra Colombia e Venezuela, dove gli Scalabriniani gestiscono un centro di accoglienza.

Può parlarci un po' della sua famiglia, delle sue origini?

Sono nato nel bel mezzo della guerra a Premia, alla frontiera tra Italia e Svizzera. La mia nascita non è stata facile, mia madre stava morendo e mi hanno tirato fuori col forcipe, ne porto ancora i segni. Anche se non avevo speranze, dopo tre ore dalla nascita ho emesso un vagito e il medico ha detto “È ancora tra noi”. Ed eccomi qui.

Nel mio lavoro come missionario, nei miei anni in Africa, sono stato in coma per malaria cerebrale e anche in quell'occasione mi hanno dato per spacciato, dandomi due ore vita... ma sono qui. Questo ha confermato la mia dimensione missionaria, ho saputo che Dio mi aveva inviato per qualcosa. Di recente ho avuto un ictus, a quanto dicono lieve. Ho avuto anche il Covid asintomatico... ed eccomi qui.

Sempre sorridente, padre Flor si esprime con la saggezza che dà la grande conoscenza degli esseri umani e della misericordia divina. Si considera un migrante, ma un migrante volontario, a differenza di quelli che aiuta da decennni, che sono “condannati alla migrazione”.

Avevo due sorelle: una è morta da piccola, a sei mesi, pensavano che fosse influenza ma era gastroenterite ed è morta disidratata. L'altra mia sorella vive a Bergamo, dove si era stabilita la famiglia, anche se papà ha continuato a spostarsi per via del suo lavoro in una grande impresa. Era addetto ai rimorchi, meccanico della Caterpillar.

FLORENCIO RIGONI

È vero che è entrato in seminario a dieci anni?

Sì, a dieci anni! È accaduta una cosa molto curiosa, che leggo come segno di salvezza e di vocazione. Tornando dalle vacanze, che era l'unico momento in cui stavamo con papà perché lavorava fuori, ho incontrato un sacerdote che era sopravvissuto alla guerra. È arrivato nel mio paese come vicario, già anziano, e ha lasciato il segno. Poi è arrivato un missionario della mia congregazione, e ci siamo presentati in quattro, tre dei quali siamo diventati sacerdoti. Uno è vescovo in Brasile.

Il problema è stato che mia madre mi ha fermato per un anno, e quello successivo voleva trattenermi un'altra volta. Siamo dovuti andare a un telefono pubblico per consultare mio padre, che stava costruendo una grande diga tra Svizzera e Francia. Dopo un'ora e mezza ci hanno messo in contatto e ho potuto dirgli che volevo entrare in seminario.

È rimasto colpito, ha riflettuto e mi ha detto: “Guarda, non so fino a che punto ti rendi conto di quello che vuoi fare... Anch'io sono stato missionario e ho lavorato in Africa. Vuoi andare? Vai. Vuoi tornare? Torna, la porta è sempre aperta”.

Ancora oggi mi chiedo come sia stato possibile ad appena dieci anni dire che volevo andare. Mamma non era contraria al sacerdozio, ma voleva che diventassi diocesano per potermi seguire da vicino, e questa era l'ultima cosa che volevo.

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Perché voleva diventare missionario?

Per due fotografie che aveva lasciato quel sacerdote, una di un missionario a cavallo in Brasile, e l'altra di un missionario su una moto nelle miniere del Belgio. Ovviamente quelle cose non sono arrivate subito. All'inizio sono stato a cento chilometri dalla mia città, e il primo grande viaggio è stato come incaricato del porto di Genova, il più grande del Mediterraneo.

Ho chiesto al Ministero della Marina di fare un'eccezione perché il passaporto da marinaio lo davano fino ai 23 anni e io ne avevo 25, e così mi sono imbarcato come aiuto elettricista (avevo studiato teoria eletrica). Andavamo in Giappone e abbiamo vissuto la guerra dello Yom Kippur, abbiamo dovuto fare il giro dell'Africa perché non potevamo passare per il Canale di Suez. Siamo stati in mare per un totale di otto mesi.

«Nel mare si tocca l'immensità di Dio»

Quella è stata un'esperienza unica: dico sempre che i Gesuiti mi hanno insegnato la Teologia e la Filosofia, e il mare mi ha insegnato tutta la spiritualità che ho oggi. Il mare è la culla in cui si può toccare l'immensità di Dio. In mare aperto, dove la terra scompare dall'orizzonte, si vede un cielo che non si vedrà mai più, un cielo che parla, quel piccolo tremore delle stelle diventa dialogo. Il mare ti mette in contatto con tutta l'umanità.

Da allora, padre Flor María non ha smesso di viaggiare. È stato imbarcato tre anni, e l'ultimo lungo viaggio è stato quello che lo ha visto partire dall'Italia alla volta di tutta la costa del Pacifico, fino all'ultimo porto del Cile, per prendere rame.

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Cos'è successo quando è finita la vita del marinaio?

Sono stato dieci anni in Germania, un'esperienza molto profonda in cui ho scoperto l'altro tedesco, non il tedesco dei nazisi, ma il tedesco industriale, sociale, civile. Un Paese in cui il servitore pubblico è davvero qualcuno che sta aspettando per servirti.

La maggior parte del tempo l'ho trascorsa con i migranti del continente americano. Sono qui da 39 anni. All'inizio sono arrivato in Messico, alla frontiera con gli Stati Uniti. Ho visitato California, Tijuana, Ciudad Juárez, la frontiera tra Messico e Guatemala.

Il migrante messicano mi ha insegnato a reinventare giorno dopo giorno i motivi del mio canto e della mia speranza. Venivo dalla Germania, dove tutto era previsto e avevo più denaro del necessario, e sono arrivato in una zona in cui tanti migranti perdono la vita, la famiglia, la speranza.

Padre Flor ha lasciato in Messico varie opere ancora attive, e per il suo straordinario operato ha ricevuto nel 2020 il Premio Nazionale per i Diritti Umani da parte del Presidente messicano ed è stato incluso tra i 150 personaggi che hanno lasciato una traccia nel Paese.

FLORENCIO RIGONI

Quando è arrivato in Colombia?

Il 1° marzo 2020, e la pandemia mi ha chiuso. Ero destinato all'Indonesia, ma all'ultimo momento i miei superiori hanno cambiato la destinazione. La prima impressione è stata molto strana perché ho dovuto vivere una sorta di reclusione, o almeno di controllo, che non avevamo previsto.

Anche se i migranti sono il nostro carisma e lavoriamo con mobilità forzata e rifugiati, qui in Colombia abbiamo un altro volto che è il più difficile dopo quello della tratta: gli sfollati. È un vero dramma.

Noi Scalabriniani lavoriamo per loro attraverso tre centri Ciami: uno a Cúcuta, uno a Villa del Rosario e uno a Bogotá, nel quartiere della prostituzione ufficializzata.

Siamo arrivati in questo Paese 45 anni fa, e lavoriamo con i migranti con un modello basato su tre pilastri: accoglienza, formazione e territorio. Diamo alloggio a persone di qualsiasi religione e colore. Offriamo loro formazione per ottenere un lavoro immediato o facile e in cui non si debba investire molto; diamo loro anche gli strumenti indispensabili perché possano iniziare dalla loro casa o baracca.

Il terzo punto è il territorio, il luogo in cui i migranti possono stabilirsi e costruire insieme un domani comune. E con il territorio c'è la territorialità, perché lì c'è la scuola per i miei figli, lavoro per me e una realtà a cui posso apportare qualcosa, e per questo mi preparo.

Si è sentito stanco?

Stanco, sì, e deluso, soprattutto quando non c'è riconoscenza. Ci sono popolazioni che in generale non ringraziano molto. Se sapessero quante notti non abbiamo dormito per trovare il modo per pagare le spese!

Continuiamo comunque a lavorare con lo stesso impegno. Noi Scalabriniani non facciamo distinzione di religione, sesso, colore o ideologia politica. Quello che conta per noi è la persona, e aggiungiamo il Vangelo.

Continuerò finché Dio mi darà la forza, e ogni posto va bene. Spero di non essere un peso per nessuno. E come dice San Paolo, come missionario di cuore, non so se mi conviene rimanere con voi o dirvi addio e andarmene con Dio.

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