“Mondanità”! Ecco una parola che decisamente non passa inosservata, a partire dall’inizio del pontificato di papa Francesco! Cardinali o preti, giovani o vecchi, chierici o laici… ce n’è per tutti. In francese il termine designa la frequentazione di persone potenti o fortunate, nonché il culto dell’esteriorità. L’italiano ha conservato il senso originario del latino: l’attaccamento ai beni di questo mondo. Francesco va ancora più lontano.
Dopo la lettura dei testi in cui ne parla, potreste rispondere a un formulario di domande ben poste per sapere se sulla sua scala ance voi siete mondani? E dove vi collochereste – un po’ troppo “del mondo” o non abbastanza “nel mondo”? Per lui, la mondanità rappresenta un pericolo reale, «il peggio che possa capitare alla Chiesa di Dio». E ci rimanda, il Papa, al libro di Henri de Lubac “Meditazione sulla Chiesa” (1953), che la definisce come una «attitudine radicalmente antropocentrica» nascosta sotto una perfetta posa religiosa… È quel che un François Mauriac ha ben descritto nel romanzo La Farisea (1941), donna che si presume eletta da Dio, notata dal vescovo per il suo rigoroso ascetismo, che sa opprimere quanti la circondano col rigore di un perfezionismo morale ben lungi dalla santità.
La confusione tra perfezionismo e santità
Ecco denunciata la sorgente della mondanità spirituale: la confusione tra perfezionismo e santità, separati dallo spessore di uno scrupolo. Cosa li differenzia? La ricerca orgogliosa di sé stessi («Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?») o piuttosto della sola gloria di Dio, nell’umiltà («Il Signore ha fatto per me cose grandi, e santo è il suo nome!»). La regina Grimilde o la Regina del Cielo… l’amore del proprio “io” fino al disprezzo di Dio oppure l’amore di Dio fino al disprezzo dell’“io”.
Il testo di riferimento sulla mondanità resta l’esortazione apostolica del 2013, Evangelii Gaudium, ai nn. 93-97, lì dove la nozione risulta ben definita:
La mondanità spirituale, che si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa, consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana ed il benessere personale. È quello che il Signore rimproverava ai Farisei: «E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?» (Gv 5,44). Si tratta di un modo sottile di cercare «i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (Fil 2,21). Assume molte forme, a seconda del tipo di persona e della condizione nella quale si insinua. Dal momento che è legata alla ricerca dell’apparenza, non sempre si accompagna con peccati pubblici, e all’esterno tutto appare corretto. Ma se invadesse la Chiesa, «sarebbe infinitamente più disastrosa di qualunque altra mondanità semplicemente morale».
È un po’ come se un cardinale cercasse la porpora migliore per la propria talare senza più ricordarsi di ciò a cui quel colore rimanda: la testimonianza da rendere a Cristo fino all’effusione del sangue. La mondanità, dunque, la si può riassumere così: avere un comportamento religioso perfetto… accanto a una fede morta.
Gnosticismo e pelagianesimo
Nella Evangelii Gaudium il Papa mostra due aspetti di questa perversione spirituale, che egli va a riprendere poi in altri due testi – l’esortazione apostolica Gaudete et exsultate (sulla chiamata universale alla santità, del 2018) e la lettera apostolica Desiderio desideravi (2022). In altre parole, il religioso mondano dà l’apparenza della santità in due modi: anzitutto lo gnosticismo, che consiste nel
credere che, poiché sappiamo qualcosa o possiamo spiegarlo con una certa logica, già siamo santi, perfetti, migliori della “massa ignorante”. […] Infatti, lo gnosticismo «per sua propria natura vuole addomesticare il mistero» […]
In un certo senso è «Dio nei limiti della sola ragione». Qui, il mondano gioisce di quello che la sua sola ragione può conoscere di Dio con evidenza, evacuando la certezza della fede…
Seconda perversione, il pelagianesimo, che consiste nel godere dei soli sforzi della volontà nell’attesa della perfezione, rigettando qualsivoglia necessità della grazia: si tratta di «una volontà senza umiltà» (Gaudete et exsultate 47), o della giustificazione mediante le proprie forze (57).
Cristo è l’unico Salvatore
Qui l’“io” brilla nei salotti, sui social network, ben più del Signore (del quale vorrebbe farsi portavoce ma di cui diventa lo schermo); ecco che l’“io” si ammira nella propria bontà, mancando totalmente alla virtù della carità. La mondanità attacca le nostre due facoltà spirituali: l’intelligenza e la volontà, per le quali si diventa portatori della propria luce (“Luciferi”, in senso etimologico), attribuendosi da sé la Gloria che spetta a Dio soltanto. Si capisce bene quali siano la posta in gioco e le tentazioni nell’àmbito liturgico (cf. Desiderio desideravi 17-20).
Some se ne viene fuori? Non c’è santità cristiana senza fede né umiltà. L’accoglienza del Verbo divino nell’umiltà della fede, per la santità dell’intelligenza; l’accoglienza umile della grazia per la santità della volontà. In una parola, Cristo è il solo e unico Salvatore. Ci sono certamente delle virtù naturali che elevano l’uomo nella sua ricerca della verità e della bontà: prudenza, giustizia, forza, temperanza, intelligenza, scienza, saggezza sono necessarie… ma non sufficienti. Solo il dono di Dio, elevandoci alla santità, ci permette di vivere da figli di Dio, liberi e salvi… salvati soprattutto da noi stessi!
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]