Qualche tempo fa erano usciti dei dati allarmanti sull'uso (o meglio sull'abuso) della chirurgia estetica. Non soltanto, si badi bene, da parte di uomini e donne in là con gli anni, desiderosi di prolungare il più a lungo possibile l'inesorabile viale del tramonto. No, stavolta a colpire era altro: l'enorme numero dei giovani - anzi, perfino di adolescenti - che ricorrono al classico "ritocchino".
Il dato uscito dal convegno 'Hair&Nail and Anti-Aging' di Capri (lo scorso 6-7 maggio) faceva realmente impressione: il 73% degli adolescenti italiani ha ammesso di aver fatto ricorso a qualche forma di intervento estetico.
«Look Inistagram», o della voglia matta di omologarsi
Una cifra che la dottoressa Gabriella Fabbrocini (direttore dell'Unità di Dermatologia clinica dell'Università Federico II di Napoli), promotrice del convegno assieme a Antonella Tosti, che insegna Dermatologia a Miami, ha spiegato col fatto che «oggi sempre più giovani, e in particolar modo i giovanissimi teenager vogliono sentirsi al passo con il 'look Instagram', omologandosi ai propri coetanei e a un ideale estetico standardizzato dai social media».
Per l'esperta è essenzialmente una questione di immagine: «L'immagine è tutto per molti giovani», spiega. Gli adolescenti in particolare ormai condividono le loro vite online. I like, in maniera conscia o inconscia, sono diventati una forma di riconoscimento. La politica del riconoscimento, lo ha mostrato Charles Taylor, è un mattone fondamentale dell'identità dell'uomo contemporaneo. E nell'epoca dei social network ۸passa inevitabilmente per ile conferme dei like.
Non meraviglia perciò quanto aggiunge la dottoressa, ovvero che «una delle motivazioni primarie per i pazienti che cercano un intervento di chirurgia estetica è il desiderio di apparire meglio nelle fotografie».
La ricerca del «selfie perfetto»
E fin qui siamo ancora all'interno della logica che il sociologo Vanni Codeluppi ha definito del «corpo-packaging»: il corpo che diventa una sorta di marca da esibire, soggetta alle variazioni della moda, dunque manipolabile più o meno all'infinito. Christopher Lasch invocherebbe la «cultura del narcisismo».
In questa direzione sembra portare la ricerca del «selfie perfetto» che per la dottoressa Fabbrocini è alla base delle richieste di labbra carnose e zigomi più nitidi. Per il resto gli interventi più richiesti restano i trattamenti contro l’acne e la cellulite, la rimozione dei peli superflui o delle smagliature, i trattamenti per rimpolpare labbra. E ancora la rinoplastica, la correzione estetica delle orecchie e la mastoplastica.
Il problema però è che qui non si tratta più solo di correggere quelli che si presentano come oggettivi difetti fisici. L'esperta segnala l'alto rischio di inseguire una sorta di chimerico ideale di bellezza. Al punto da arrivare anche ad alterare i propri tratti etnici. C'è poi il caso degli adolescenti affetti dal disturbo da dismorfismo corporeo. Si tratta di giovanissimi, in sintesi, che tendono ad amplificare tratti fisici normalissimi o piccoli difetti a causa di una percezione alterata di sé.
Il pericolo di abuso della chirurgia correttiva in questo caso è dietro l'angolo. C'è il rischio di attivare un vero e proprio «effetto valanga»: nessun intervento infatti sarebbe mai soddisfacente, nessun intervento sarebbe mai risolutivo. L’ideale infatti non ha limite: l’utopia, presa alla lettera, non ha luogo dove appagarsi.
Da qui il vero boom di filler tra gli adolescenti e di prodotti riempitivi agevolmente reperibili a basso costo in rete.
E se invece ci si vergognasse e basta?
L'impressione però - o il sospetto - è che dietro a numeri così imponenti come il 73% di ragazzini “ritoccati” (quasi tre su quattro) ci sia qualcosa di più profondo ancora della semplice ricerca del selfie perfetto.
Anni addietro il filosofo tedesco Günther Anders — tra gli altri molto apprezzato da Fabrice Hadjadj per le sue lucide diagnosi del mondo post-Hiroshima — aveva coniato il concetto di «vergogna prometeica». Si ricorderà il mito di Prometeo, il titano amico degli uomini che cercò di ovviare alla deficitaria distribuzione di «buone qualità» tra gli esseri viventi operata dal fratello Epimeteo. Che pieno di buona volontà aveva rifornito in gran quantità tutti gli animali. Peccato si fosse scordato dell'uomo, lasciato così senza mezzi di sopravvivenza.
A rimediare ai guai combinati dall'improvvido (letteralmente) Epimeteo provvederà Prometeo donando agli uomini le arti — vale a dire la sapienza tecnica — e il fuoco prima di incorrere nell'ira di Zeus.
Ecco, per Anders — il cui vero cognome era Stern e che fu a lungo, tra le altre cose, il marito di Hannah Arendt — nel nostro tempo i prodotti della tecnica e l'organizzazione necessaria per produrli hanno raggiunto un tale livello di perfezione da far sentire in difetto l'uomo stesso. Insomma, Prometeo è stato talmente bravo da trasformarsi in un Pigmalione vergognoso, segretamente innamorato – o forse solo invidioso – della statua plasmata dalle sue mani.
Essere nati è roba démodé?
Da qui si origina quel sentimento di «vergogna prometeica» che, scrive Anders in un libro tradotto col titolo L’uomo è antiquato (che già dice tutto), si impadronisce dell’uomo «di fronte all’‹umiliante› altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi». Davanti al magico mondo dei propri prodotti l'homo faber si duole di non essere un homo fabricatus. Come se fosse preso dallo sconforto per non essere a sua volta un prodotto.
Anders parla di una vera e propria «macchia fondamentale». Un nuovo peccato d'origine si istilla nell'uomo, un senso di vergogna che deriva fondamentalmente dalla coscienza di avere un'origine. L'uomo così «si vergogna di essere divenuto invece di esser stato fatto, di dovere la sua esistenza, a differenza dei prodotti perfetti e calcolati fino all’ultimo particolare, al processo cieco e non calcolato e antiquatissimo della procreazione e della nascita».
Ci siamo infine: l'uomo che trova la creazione difettosa, vergognandosi di essere nato e non, invece, fabbricato. Nulla di particolarmente nuovo: antiche idee gnostiche oggi tornate prepotentemente alla ribalta in un tempo contrassegnato dal materialismo e dal trionfo del «paradigma tecnocratico», per dirla con papa Francesco. In altri termini, ci si autoriduce a cose.
Make-up o ornamento?
Un esempio di questa autoriduzione a cosa Anders lo vedeva, per restare in tema di estetica, nel make-up. Abbiamo evocato prima Fabrice Hadjadj. Proprio lui, sulla scia di Anders, nel suo A me la gloria insiste sulla differenza tra il make-up e l'ornamento. Quando una donna si adorna, fa notare Hadjadj, non fa altro che assecondare la sua naturale vocazione alla grazia. A ispirarla è un innato desiderio di bellezza, di celebrare e dar gloria alla creazione (riflesso della gloria del Creatore).
Qui non si tratta di mascherare, ma di esaltare una bellezza naturale. Scrive Hadjadj: «Adornandosi, la donna non è artificiosa, ma prende su di sé quanto di più naturale c’è nella natura, perché la natura è una potenza nell’inventare delle forme». Chi più della natura esalta la bellezza dei gigli del campo, impareggiabili – parola del Vangelo – anche per i vestiti di re Salomone?
Col make-up, sottolinea Anders (che scrive, è bene dirlo, negli anni '50 dopo un passaggio a Hollywood, dove si era rifugiato dopo la fuga dalla Germania nazista perché ebreo) subentra qualcosa di differente: sempre quel fastidioso sentimento di vergogna. Le giovani donne cominciavano a non vergognarsi più, come le loro mamme o le loro nonne, a presentarsi in veste trascurata o disadorna. Era come se si sentissero a posto, davvero a loro agio, soltanto una volta «trasformate (per quanto lo consenta la materia prima delle loro membra e dei loro volti) in cose, in oggetti di artigianato, in prodotti finiti», scrive Anders.
Diversamente nudi davanti alle cose
Si vergognavano non tanto a presentarsi con le unghie rovinate. Piuttosto trovavano sconveniente mostrarsi con le «unghie nude». Come se in società, in ufficio o anche in cucina le loro unghie fossero degne di esser presentate soltanto quando potevano gareggiare «alla pari» con gli arnesi che dovevano maneggiare. Come se anche le unghie dovessero far mostra della «stessa morta e lucida rifinitura da oggetto» degli arnesi.
In altre parole, una volta ancora, è la vergogna prometeica che si manifesta. Quelle donne si sentivano «curate» solo quando erano portate a «rinnegare la loro precedente vita organica», cioè quando davano «l’impressione di essere fabbricate». Uno standard che Anders vedeva replicato in ogni aspetto del corpo: per i capelli, le gambe, per l’espressione del viso. «Perché oggi - conclude il filosofo tedesco non è il corpo svestito a essere considerato «nudo», bensì quello non lavorato, quel corpo che non contiene elementi di cose né indizi di una riduzione a cosa. E ci si vergogna di questo corpo «nudo» in senso nuovo, anche quand’è coperto, molto di più del corpo «nudo» in senso tradizionale, purché si sia riusciti a ridurlo a cosa in modo soddisfacente. Qualsiasi spiaggia, non solo qualsiasi spiaggia alla moda, lo dimostra».
Giudizi e concetti estremi. Ma questo era Günther Anders: un pensatore radicale, apocalittico, da tempi ultimi. Per tornare, più modestamente, al boom dei ritocchini tra i giovanissimi, forse anche in questo frangente è all'opera quel sentimento di vergogna prometeica che porta - perlopiù in maniera inconscia, irriflessa - a ritenere non all'altezza un corpo «non ritoccato» (non lavorato appunto), giudicato non abbastanza «performante»?
E se avesse ragione lui?
Ci muoviamo in un campo fluido, in tutti i sensi, difficile dare giudizi trancianti. Ma certo Anders fa pensare: e se avesse ragione lui? E se tutta questa antipatia per ciò che è «naturale» derivasse proprio da questa vergogna di essere nati? «Natura», tanto per dirne una, deriva dal latino natus, participio passato di nasci, nascere.
Una cosa però è certa. Se ha ragione Anders, hanno torto i fustigatori dei costumi giovanili e della decadenza dei tempi. Perché ritoccandosi per avere il «look instagram» i ragazzi di oggi non fanno nulla di sostanzialmente diverso rispetto a quelli – i loro genitori o magari anche i loro nonni – che prima di loro si ritoccavano per coprire i segni dell’età avanzante. Se devo vergognarmi dell’età che ho – cioè del naturale degrado fisico di un organismo che nasce, vive e muore – perché non devo vergognarmi direttamente del fatto che sono un essere organico, deperibile, fatto di carne vulnerabile? E dunque «imperfetto»?
All'opera, oggi come ieri, è sempre la vergogna prometeica. Soltanto declinata secondo tappe progressive. Work in progress dunque. Ma non è - va detto - un buon progresso per l'uomo.