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Chi fu il primo traduttore italiano della Bibbia?

Baby and mom reading Bible
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Lucia Graziano - pubblicato il 24/11/22
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Molti pensano che sia stato Martin Lutero il primo a promuovere la traduzione dei Testi Sacri nelle varie lingue nazionali. In realtà, la prima versione italiana della Bibbia fu data alle stampe nel 1471 a cura di un monaco camaldolense: Nicolò Malermi

Secondo una diffusa convinzione, sarebbero stati i riformatori protestanti i primi a essersi fatti carico di tradurre la Bibbia nelle lingue nazionali. In realtà, questa affermazione non potrebbe essere più lontana dal vero: certamente, i pastori protestanti si impegnarono a promuovere casa per casa la lettura e lo studio individuale della Bibbia, curando a tal fine numerose traduzioni che potessero agevolare i loro fedeli. Ma, in realtà, nel corso del Medioevo, la Bibbia era stata tradotta in buona parte delle lingue nazionali (e anzi. A titolo di curiosità: una traduzione della Bibbia in lingua gota, curata da un certo Wulfila e risalente al IV secolo, costituisce a oggi l’unica testimonianza in nostro possesso circa l’esistenza di quella lingua, che si estinse di lì a poco senza produrre altri testi scritti. O quantomeno, altri testi scritti che siano giunti fino a noi).

Contrariamente a quanto si potrebbe forse immaginare, le traduzioni della Bibbia in lingua locale erano all’ordine del giorno, nei secoli centrali del Medioevo. Molto spesso si trattava di traduzioni parziali e quasi sempre si trattava di testi che erano stati concepiti come un sussidio per lo studio, più che come un supporto per la preghiera. Per contro, erano molto apprezzate le traduzioni dei Salmi a scopo devozionale, cui si ricorreva spesso nella preghiera privata per apprezzare al meglio la musicalità di quei testi.

E quando la stampa cambiò per sempre il mondo dell’editoria, numerose tipografie si diedero da fare per pubblicare la loro versione della Bibbia. Ben prima che Lutero desse il via alla rivoluzione protestante, erano già state prodotte edizioni a stampa in lingua italiana (1471), olandese (1477), spagnola (1478), ceca (1478) e catalana (1492). 

Niccolò Malermi: il camaldolese che per primo diede alle stampe una Bibbia in Italiano

A firmare la prima edizione a stampa di una Bibbia in lingua italiana fu Niccolò Malermi, un monaco camaldolese che aveva vestito l’abito religioso da pochi anni, quando era già un uomo di mezza età. Dopo aver preso i voti, l’uomo trascorse gran parte della sua vita nel monastero di San Mattia, presso Murano; e infatti fu proprio a Venezia che, il 1° agosto 1471, fu data alle stampe la sua traduzione della Bibbia per i tipi di Vindelino da Spira.

Per tradurre i Testi Sacri in lingua locale, Malermi s’era basato sulla Vulgata, senza trascurare di consultare per confronto alcuni dei volgarizzamenti più diffusi che circolavano in forma manoscritta. Gli sforzi del camaldolese furono ripagati: la sua traduzione riscosse il consenso unanime degli intellettuali (sappiamo per esempio che anche Leonardo da Vinci se ne procurò una copia) e nell’arco di trent’anni andò incontro a nove ristampe, spesso corredate da xilografie di grande pregio. 

Nelle prime decadi del XV secolo, ebbe un certo successo anche la traduzione di Antonio Brucioli: il primo laico a essersi cimentato in questa impresa. Per i tipi di Lucantonio Giunti, l’umanista pubblicò innanzi tutto una traduzione dei Vangeli: ebbe immediatamente grande diffusione, anche grazie alle dimensioni contenute che permettevano di commercializzare l’opera in formati tascabili, e dunque molto più maneggevoli rispetto all’ingombrante Bibbia in-folio di Malermi. Nel 1532, due anni dopo la stampa dei Vangeli, Brucioli pubblicò con lo stesso editore la traduzione dell’intera Bibbia; ma in questo caso l’opera ebbe decisamente minor fortuna.

Sebbene Brucioli fosse cattolico, alcuni passi della sua traduzione parvero in odore di protestantesimo. Questa versione della Bibbia fu rapidamente messa all’Indice; per contro, riscosse molti consensi nelle comunità protestanti italiane, che la utilizzarono fino all’inizio del XVII secolo sostituendola poi, nel 1607, con una nuova traduzione curata dal calvinista Giovanni Diodati. 

Perché la Chiesa cattolica vietò di tradurre la Bibbia?

Se, in ambito protestante, una fitta attività editoriale produceva traduzioni della Bibbia sempre nuove, negli ambienti cattolici tutto taceva. Comprensibile, del resto: solo nel 1758, per volontà di papa Benedetto XIV, fu eliminata una proibizione che era stato emanata ai tempi del Concilio di Trento: e cioè, il divieto a creare nuove traduzioni della Bibbia.

Ma perché la Chiesa cattolica aveva così tanta paura di una Bibbia in traduzione?

Alla base, non c’era solamente il timore che un laico non adeguatamente formato potesse accostarsi al testo senza un’adeguata preparazione, rischiando di fraintendere ciò che leggeva e finendo col crearsi un cristianesimo fai-da-te. Accanto a questa paura (che pure esisteva), erano presenti anche altri timori: il principale risiedeva nell’apparato critico di note che (immancabilmente) accompagnava all’epoca tutte le traduzioni della Bibbia. 

Sarebbe stato impensabile, per quel tempo, pubblicare una Bibbia che non fosse stata accompagnata da note a piè di pagina utilizzate per esplicare quanto si leggeva: anzi, la maggior parte dei lettori si accostava ai Testi Sacri proprio attraverso le glosse che li accompagnavano. Un ipotetico scenario in cui le case editrici cominciavano a pubblicare traduzioni della Bibbia curate da chissà chi faceva paura anche e soprattutto per i contenuti ereticali che avrebbero potuto annidarsi nelle note. 

Non erano poi da trascurare i pericoli insiti nella traduzione stessa. Un esempio eloquente ci arriva dalla versione inglese della Bibbia a cura di William Tyndale, ex-sacerdote cattolico avvicinatosi poi agli ambienti protestanti. Nel 1526, dando alle stampe la sua traduzione, il riformatore optò per alcune scelte non prive di significato: per esempio, tradusse come «anziano» il termine presbúteros, che fino a quel momento era sempre stato interpretato come «presbitero», cioè «prete». In questa scelta di traduzione, era chiara la volontà di delegittimare le gerarchie ecclesiastiche della Chiesa cattolica: le insidie, talvolta, si nascondono anche nei dettagli!

Dalla Bibbia di Martini alla traduzione CEI

Come si diceva, fu papa Benedetto XIV a eliminare, nel 1758, il divieto di procedere a nuove traduzioni della Bibbia; e infatti, a pochi anni di distanza, vide la luce una nuova traduzione in lingua italiana curata da Antonio Martini, vescovo di Firenze. Si trattò di un lavoro colossale, che fu stampato in ventitré volumi tra il 1769 e il 1781 per i tipi della Stamperia Reale di Torino: la traduzione, che si basava sulla Vulgata, era arricchita da un imponente apparato critico con note a contenuto storico, teologico, filologico e pastorale. Per secoli, la Chiesa cattolica italiana la adottò come sua versione ufficiale; e anzi: per qualche tempo, dopo la riforma liturgica del Concilio Vaticano II, fu proprio la Bibbia di Martini a fornire i brani che furono letti nelle prime Messe celebrate in lingua italiana.

Tutto cambiò nel 1971, quando la CEI diede alle stampe una nuova traduzione a uso liturgico (che, come molti ricorderanno, è stata aggiornata nel 2008 in una nuova versione riveduta e corretta). Ma questa è storia recente, anzi è attualità: la traduzione italiana CEI è quella che ancor oggi ascoltiamo a Messa e che, probabilmente, teniamo tra le mani ogni volta che sfogliamo la nostra copia della Bibbia. 

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