Cosa sarebbe successo, se Ebenezer Scrooge fosse vissuto nella Roma del papa re e non nella Londra vittoriana? È da questa intrigante domanda che prende le mosse Il principe di Roma, il film di Edoardo Ferrone con Marco Giallini dal 17 novembre al cinema.
Nel film di Edoardo Falcone, rivive la Roma del passato
Attenzione: citiamo il romanzo dickensiano, ma Il principe di Roma non è un film di Natale. L’omaggio al classico inglese risiede unicamente nello spunto narrativo attorno al quale si sviluppa la sceneggiatura: le visite di tre fantasmi che appaiono a un uomo ricco e senza cuore, per aiutarlo a tornare sulla retta via.
Ma, per l’appunto, siamo a Roma, non a Londra; e il film non nasce dalla penna di Charles Dickens ma dalla fantasia di Edoardo Falcone, da sempre appassionato alle tradizioni e al folklore della Città Eterna. Sicché, i tre spettri che accompagneranno il protagonista nel suo viaggio di redenzione sono fantasmi veri, e in più d’un senso: innanzi tutto, si presentano come gli spiriti di tre personaggi storici realmente esistiti. Secondariamente, sono legati a vere tradizioni del folklore laziale: i cittadini romani si divertirono davvero a comporre leggende ispirate ai tre personaggi di cui sopra, immaginandoli tornare in terra sottoforma di fantasma per impartire ai vivi le loro preziose lezioni.
Beatrice Cenci: una giovane dalla vita tormentata
Per esempio, stando alla tradizione locale, il fantasma di Beatrice Cenci si manifesterebbe di tanto in tanto nella piazza antistante Castel sant’Angelo: quella in cui la giovane fu giustiziata nel 1599.
Tragiche le circostanze che la condussero alla morte, al termine di una vita breve e tormentata: Beatrice fu figlia del potente conte Cenci, un uomo crudele e dissoluto i cui vizi finirono col consumarne il patrimonio di famiglia. La giovane contessina avrebbe avuto buone chance di fare nozze vantaggiose, se solo il padre fosse stato disposto a fornirle una buona dote; ma l’uomo preferì chiuderla in una rocca, dove la giovane fu ripetutamente malmenata e abusata dal suo stesso genitore.
Ormai accecata dall’odio e dalla sete di vendetta, Beatrice si guadagnò le simpatie delle guardie che custodivano il palazzo e complottò con loro al fine di uccidere suo padre: nel settembre 1598, due sicari fecero irruzione nella camera del conte e lo uccisero brutalmente a martellate. Sfortunatamente per Beatrice, emersero presto prove schiaccianti che la inchiodarono come mandante: dopo breve processo, la giovane fu condannata a morte in compagnia di alcuni parenti che avevano preso parte alla congiura.
Per comprensibili ragioni, la tragica vicenda suscitò immediatamente la commozione dei romani: certo, il parricidio non è una bella cosa, e assoldare dei sicari dando loro l’ordine di maciullare un uomo a martellate denota una crudeltà che sarebbe inquietante anche se non ci trovassimo di fronte a una figlia che uccide il suo stesso padre. Ma, naturalmente, a nessuno sfuggirono le circostanze che avevano spinto Beatrice a quell’estremo gesto; non a caso, ne Il principe di Roma, il fantasma della giovinetta si manifesterà al protagonista per aiutarlo a riscoprire il valore dell’empatia.
Giordano Bruno, il filosofo che abbracciò la morte pur di non rinnegare le sue convinzioni
Secondo la tradizione romana, il fantasma di Giordano Bruno apparirebbe a Campo de’ Fiori una volta ogni cent’anni nell’anniversario della sua condanna a morte, avvenuta il 17 febbraio 1600. E, se volessimo dar credito alla testimonianza di un cittadino che, nel 1900, dichiarò con gran clamore mediatico di aver conversato con lo spettro di Giordano Bruno, dovremmo immaginare un fantasma che rinnega la sua appartenenza all’ordine domenicano e che addirittura si presenta come Filippo: era questo il suo nome di battesimo, contrapposto a quello di fra’ Giordano che l’uomo assunse, infatti, abbracciando la vita religiosa.
In effetti, nonostante la “classica” iconografia di Giordano Bruno ci spinga a immaginare il contrario, l’uomo non trascorse tutta la sua vita indossando l’abito domenicano. Entrò in noviziato nel 1565 e abbandonò la vita religiosa nel 1578, dopo anni tumultuosi che lo videro frequentemente entrare in lite con i suoi superiori a causa delle sue idee ereticali.
Dopo aver detto addio ai figli di san Domenico, Giordano Bruno si avvicinò al calvinismo e diede il via a una sfolgorante carriera accademica che lo portò a insegnare in numerosi atenei europei; ed è probabilmente questa la regione per cui, nell’immaginario collettivo, il filosofo viene spesso accostato a Galilei, come vittima di un processo nel quale si contrapposero fede e ragione.
All’atto pratico, le due storie sono profondamente diverse; e molte delle proposizioni per cui Giordano Bruno fu ritenuto eretico hanno contenuti quantomeno curiosi ai nostri occhi. Il filosofo, per esempio, riteneva possibile la reincarnazione; pensava che gli angeli fossero riconoscibili nelle stelle che vediamo nel cielo; parlava disinvoltamente di magia come di un mezzo per aumentare la propria conoscenza e tendere verso il divino: curiose affermazioni cui s’accompagnavano proposizioni fortemente problematiche riguardo la Trinità, l’incarnazione di Cristo e l’eucarestia.
Arrestato a Venezia nel 1592 con l’accusa di eresia e successivamente trasferito a Roma per la seconda fase del processo, il filosofo trascorse in carcere gli ultimi otto anni della sua vita, rifiutando ostinatamente un’abiura che avrebbe potuto salvargli la vita e che pure gli fu proposta in più occasioni. Ma inutilmente: l’intellettuale preferì difendere fino all’ultimo quegli ideali che erano evidentemente diventati la sua ragion d’essere.
In occasione di un convegno studi sul personaggio, organizzato nel 2000 dalla Facoltà Teologica dell’Italia meridionale, il cardinal Sodano ebbe a osservare che «questo triste episodio della storia cristiana moderna» ebbe come protagonista un individuo che oggettivamente coltivò «scelte intellettuali che progressivamente si rivelarono, su alcuni punti decisivi, incompatibili con la dottrina cristiana». Il che, ovviamente, non rende meno doloroso l’esito finale di questa storia: nel commentare il processo inquisitorio che condusse alla morte Giordano Bruno, il cardinale volle sottolineare che «alcuni aspetti di quelle procedure e, in particolare, il loro esito violento per mano del potere civile non possono non costituire oggi per la Chiesa – in questo come in tutti gli analoghi casi – un motivo di profondo rammarico».
Alessandro VI: l’inquieta memoria di un papa peccatore
Quando il protagonista de Il principe di Roma si trova di fronte al severo fantasma di Alessandro VI, lo azzittisce con uno sfogo esasperato: «quand’eri vivo hai rubato, hai ammazzato, te sei accoppiato che manco i conigli, e vuoi fare la predica a me?».
Critiche inappuntabili, che il defunto pontefice incassa con classe: «sì; dovevo essere pastore d’anime, e invece pascolai solo le mie brame». Ed è infatti questa consapevolezza a spingere lo spettro a scendere in campo, per impedire al protagonista di fare la sua stessa fine.
Dire che papa Alessandro VI non fu esattamente un esempio da imitare vuol dire ricorrere all’understatement del secolo. Il prelato non fece alcun segreto della sua condotta licenziosa e dei suoi figli illegittimi; ma l’intensa vita sentimentale di papa Borgia fu paradossalmente l’ultimo dei problemi con cui i romani dovettero confrontarsi, tenuto conto del fatto che, nel corso del suo pontificato (1492 – 1503), l’uomo favorì in ogni modo la sua famiglia piazzando i parenti in posizioni di potere.
Un noto adagio recita «chi è causa del suo mal, pianga se stesso»; e certamente queste parole ben s’attagliano alla figura di Alessandro VI. Quel papa lussurioso e nepotista fu fonte di infinita ispirazione per i polemisti protestanti, cui non parve vero di poter sfruttare la cattiva nomea di un pontefice che sembrava esser stato fatto apposta per prestarsi come testimonial delle chiese riformate. Nei decenni immediatamente successivi alla morte di Alessandro VI (che pure non avrebbe avuto bisogno di una cattiva stampa per fare una pessima figura…), sorsero vere e proprie leggende nere che finirono col dipingerlo come un individuo ancor peggiore di quanto fosse realmente stato.
Papa Borgia fu certamente un pessimo pastore d’anime; ma (se escludiamo quel piccolo dettaglio del nepotismo) non fu tra i peggiori governanti di cui Roma abbia avuto memoria. Anzi: per certi versi fu un abile statista, che ebbe cura di amministrare personalmente la giustizia, sanare un grave dissesto finanziario e dedicarsi al mecenatismo; è lui che dobbiamo capolavori come la Pietà di Michelangelo, per fare un esempio celebre tra i molti.
Come dire: peccato per quella vita privata che non avrebbe potuto essere più lontana da qualsiasi ideale di santità. Del resto, ne Il principe di Roma, anche il fantasma di papa Borgia pare conscio delle sue passate colpe: una caratteristica che peraltro condivide con il “vero” spettro del folklore romano. Ancor oggi, secondo la leggenda, il fantasma di papa Borgia percorre inquieto le strade della capitale fermandosi davanti a una casa vicino a piazza Farnese: quella in cui, in vita, era solito incontrare la sua amante Vannozza.
Col senno di poi, forse avrebbe voluto non averlo mai fatto; o, quantomeno, è in questi termini che al popolo romano piacque immaginare il fantasma di Alessandro VI: dopotutto, chiunque può pentirsi all’ultimo respiro e realizzare la gravità delle sue colpe. Persino un papa peccatore.