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Per le ostie, solo farina di frumento: una prescrizione di vecchissima data

Ostia Consacrata
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Lucia Graziano - pubblicato il 10/11/22
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A Cuba, la farina di frumento è irreperibile; in assenza di quell’ingrediente indispensabile, le monache sono state costrette a interrompere la produzione di ostie. Ma a quando risale la norma che prescrive di utilizzare in via esclusiva farina di frumento? E come si faceva una volta, quando le carestie erano all’ordine del giorno?

Ha destato scalpore, negli scorsi giorni, l’allarme lanciato dalle Carmelitane Scalze dell’Avana, presso il cui monastero vengono solitamente prodotte le ostie utilizzate nelle chiese cattoliche di Cuba. A causa della grave crisi alimentare che in questi mesi ha colpito l’isola, le monache non sono più in grado di produrre le particole: le loro scorte di farina si sono esaurite e le autorità cubane non sembrano in grado di far arrivare nuove forniture. Molti panifici locali hanno ripiegato sulla farina di mandioca, più facilmente reperibile, ma la produzione delle ostie a uso liturgico è cosa molto più delicata: norme secolari ordinano di utilizzare esclusivamente particole prodotte con farina di frumento.

Questa, la notizia di cronaca. Che, come spesso capita, ha fatto sorgere alcune curiosità: per esempio, quanto è antica la prescrizione che ordina di utilizzare farina di frumento in via esclusiva? E come si faceva, una volta, quando le carestie erano più frequenti e non era certo facile far arrivare da lontano carichi di grano?

La crisi alimentare del XIX secolo

Innanzi tutto, non è la prima volta che la Chiesa Cattolica si trova ad affrontare una crisi alimentare così seria da bloccare la produzione di ostie. Com’è ovvio, le carestie esistono da sempre, ma fu in particolar modo il XIX secolo a essere funestato da una penuria di cibo che ha pochi precedenti nella Storia. Nel 1815, la violentissima eruzione del vulcano Tambora, in Indonesia, immise in atmosfera una quantità di ceneri tale da alterare pesantemente il clima nei due anni immediatamente successivi. Il 1816 e il 1817 furono testimoni di una gravissima carestia su scala globale, e altre annate di pessimi raccolti flagellarono l’Europa alla metà del secolo. Per colmo di sventura, a partire dal 1860, i vigneti di tutto il continente cominciarono a essere attaccati dalla filossera, un insetto proveniente dall’America che attaccava le radici delle viti. Nell’arco di pochi anni, l’infestazione si propagò incontrollata, portando a un blocco quasi totale della produzione vinicola europea: insomma, nell’Ottocento si faceva la fame per davvero!

Naturalmente, come sempre accade in queste circostanze, la popolazione architettò alcuni espedienti per supplire alla mancanza di materie prime. La costosissima farina di frumento, ormai venuta a cifre spropositate, cominciò a essere tagliata con altre sostanze più economiche: fecola di patate e farina di mais, nel migliore dei casi. Ma c’era anche chi utilizzava ingredienti più bizzarri, come dadi in polvere ottenuti con gli scarti di macellazione… se non addirittura segatura!

Quanto al vino, si scoprì che correggere il mosto con piccole dosi di zucchero di canna (…oppure glicerina!) permetteva di produrre bevande accettabili anche a partire da uva acidula. Ma non solo: in un contesto in cui, a causa della filossera, persino l’uva cattiva era diventata merce rara, ci fu chi si ingegnò a studiare ricette per “vini artificiali”. Per esempio pare che, a metà Ottocento, un discreto (?) Bordeaux potesse essere prodotto lasciando infondere uvetta, ciliegie nere e semi di sesamo in una miscela composta da acqua, sidro e succo di fragola.

Inevitabilmente, un simile scenario poneva grossi interrogativi sulle linee di: ma è salubre, questa cosa?

E, inevitabilmente, la risposta era no: se non c’è problema a mangiare una focaccia fatta di mais o a sostituire il vino con una bottiglia di succo di fragola, ingollare glicerina e mangiare segatura è tutt’altra questione. Nel 1820, il chimico Friedrich von Accum pubblicò a Londra A Treatise on Adulterations of Food and Culinary Poisons, un agile manuale in cui illustrava i potenziali pericoli derivanti dal consumo di cibo adulterato e offriva alle massaie alcuni trucchetti facilmente attuabili per verificare la qualità degli ingredienti messi in vendita al mercato.

De la falsification des substances sacramentelles”: un testo che destò scalpore

Si mosse sulla falsa riga di questo testo un volumetto che fu dato alle stampe nel 1856 a firma di un frate domenicano francese, Pie-Marie Rouard de Card. Qualche anno prima, trovandosi a celebrare Messa in una chiesa che non era la sua, il sacerdote erano rimasto perplesso nell’aprire i cassetti della sacrestia e trovarsi di fronte a un sacchettino di ostie che gli erano sembrate strane, per il loro colore e la loro consistenza. Il frate, appassionato di chimica, aveva messo da parte una di queste particole e se l’era portata a casa per analizzarla: indicibile il suo sgomento, nello scoprire che l’ostia era interamente composta di fecola di patate.

La fecola di patate non fa male alla salute, ma decisamente non dovrebbe essere presente all’interno di una particola: nel 1439, nel corso del Concilio di Firenze, la Chiesa aveva chiarito senza possibilità d’appello che solamente il vino d’uva e il pane creato con farina di frumento avrebbero potuto essere impiegati nella celebrazione dell’Eucarestia. E quello di inizio Quattrocento non era stato che l’ultimo e il più recente di una lunga serie di pronunciamenti che datavano fin dai primi secoli; e che, per quanto ne sappiamo, ben di rado avevano creato problemi insormontabili. Certo, le carestie sono sempre esistite, ma ben di rado era del tutto impossibile mettere da parte qualche briciola di pane da consacrare; e il fatto che, in passato, i fedeli laici facessero la comunione piuttosto raramente aiutava a tenere molto bassa la quantità di particole consumate quotidianamente.

Ma nell’Ottocento (cioè, in un’epoca in cui il pane cominciava a essere prodotto in scala industriale, i sacchi di farina provenivano da mulini lontanissimi di cui nessuno aveva mai visto il funzionamento, e molti commercianti avevano preso il malcostume di fronteggiare la crisi allungando le materie prima con ingredienti che non venivano dichiarati in etichetta) diventava difficile anche il semplice accertarsi della genuinità di quanto si aveva dinnanzi. Ripensando a quelle ostie fatte con fecola di patate, Pie-Marie Rouard de Card era assolutamente convinto che esse fossero state comprate in buona fede, da un sacerdote che banalmente non s’era reso conto della frode alimentare in cui stava cadendo.

Fu questa la ragione che spinse de Card a pubblicare nel 1856 un saggio De la falsification des substances sacramentelles, nel quale avvertiva i sacerdoti del pericolo e offriva ai sacrestani alcuni metodi fai-da-te con cui verificare la genuinità del pane e del vino che si trovavano di fronte.

1861: e la Chiesa inventò la filiera agro-alimentare certificata

La pubblicazione di de Card sollevava un problema non da poco; inevitabilmente, fece scalpore suscitando un acceso dibattito sul miglior modo di affrontare la questione. Dopo alcuni anni di riflessione, nel 1861, la Santa Inquisizione diramò una serie di norme stringenti da utilizzare nella scelta del pane e del vino da utilizzare a scopo liturgico. Era necessario che tutti gli ingredienti provenissero da una filiera certificata e tracciabile, di cui fosse possibile ricostruire passo passo ogni singola fase di lavorazione: a partire dalla raccolta della materia prima, fino al confezionamento del prodotto finito.

Di fronte alla sconfortante evidenza per cui, a un attento esame, era emerso che molta della farina comunemente in commercio era tagliata con altre sostanze, l’Inquisizione ordinò alle singole diocesi di verificare attentamente l’affidabilità dei loro fornitori o, meglio ancora, di organizzarsi per macinare in prima persona il grano. Logisticamente più difficile era produrre in vino in casa (anche se questo non impedì ad alcune diocesi di dotarsi di cantine proprie); e tuttavia, si ribadì la necessità di affidarsi a fornitori autorizzati, che fossero capaci di garantire il rispetto delle regole prescritte dalla Chiesa.

Nello stesso anno anche la Congregazione di Propaganda Fide intervenne sul tema, chiarendo che non sarebbero state ammesse deroghe nemmeno per quelle comunità cattoliche stanziate in terre lontane, dove erano maggiormente diffusi panificati prodotti a partire da farine alternative e bevande alcoliche diverse dal vino d’uva. Pur nella consapevolezza delle difficoltà spesso riscontrate nel reperire i giusti ingredienti, le deroghe erano giudicate del tutto inaccettabili: del resto, stiamo parlando di una norma di antichissima tradizione, che più volte era stata ribadita e mai era stata messa in discussione. E anzi: da sempre fu difesa con fermezza anche nei momenti di crisi – così come del resto accade ancor oggi, come mostrano le notizie che in queste settimane arrivano da Cuba.

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