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Le femministe cattoliche di inizio ‘900

La Pentecôte
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Lucia Graziano - pubblicato il 05/11/22
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È possibile essere femministe e cattoliche al tempo stesso? Ovviamente, tutto dipende dal modo in cui si intende il femminismo; in Italia, per esempio, esistette per davvero un movimento che fu dichiaratamente femminista e cristiano. A gettarne le basi, nel 1901, fu niente meno che un frate francescano.

È possibile essere femministe e cattoliche al tempo stesso?, si domanda Michela Murgia nel suo ultimo libro di recente pubblicazione. Dato il contesto e il background dell’autrice, era certamente prevedibile che l’interrogativo avrebbe provocato tra le donne cattoliche più d’un sorriso (e qualche polemica); è pur vero però che, in termini astratti, la domanda sarebbe anche degna d’attenzione: all’atto pratico, è possibile coniugare ideali femministi a una retta pratica cristiana?

Beninteso, la risposta è così ovvia da sembrar banale: il termine “femminismo” racchiude in sé una vasta gamma di movimenti, che si fanno portavoce di ideologie anche molto diverse tra di loro. E se alcune di queste sono ben difficilmente conciliabili con quanto afferma il catechismo, è certamente vero che, in senso assoluto, la difesa dei diritti femminili non è contraria alla fede (e come potrebbe?).

In passato, vi furono anzi dei momenti in cui le giuste battaglie delle donne furono incoraggiate e supportate da uomini di Chiesa, che entusiasticamente condividevano la causa. E, in tal senso, è parso interessante analizzare i modi in cui fu declinato l’attivismo delle prime femministe cattoliche della Storia italiana: quelle che vissero a inizio Novecento, in un’epoca in cui le battaglie da combattere erano quelle per ottenere il diritto di voto e una maggiore rappresentanza nella vita pubblica. Ma non solo, come vedremo.

Il femminismo di frate Antonio da Trobaso

In Italia, il primo “Congresso Femminista Cristiano” (si chiamava proprio così) si tenne a Milano presso la chiesa di Sant’Angelo in via della Moscova, dal 23 al 26 aprile 1901. A organizzarlo fu frate Antonio da Trobaso, che aveva sviluppato una certa esperienza riguardo la questione femminile grazie alla catechesi che, ormai da anni, organizzava a vantaggio delle terziarie francescane.

Venire quotidianamente a contatto con queste donne, e sperimentare ciò di cui erano capaci nella vita di ogni giorno, aveva profondamente colpito il francescano, che nelle “sue” terziarie aveva scoperto campionesse di abnegazione, fermezza e spirito di sacrificio (altro che sesso debole!, si trovò più volte a commentare). Agli occhi di fra’ Antonio, la solerzia e la laboriosità instancabile che le donne riservavano alla cura della famiglia erano virtù preziose, che avrebbero ben potuto essere indirizzate anche al di fuori della sfera domestica. E anzi: mettere a frutto quei talenti, dedicandosi a una buona causa sarebbe stato utile e anzi meritorio soprattutto per quelle donne che avevano molto tempo libero, essendo ancora nubili oppure madri di figli ormai già grandi.

Ma, affinché le donne che lo desideravano potessero impegnarsi in questo senso, occorreva innanzi tutto spezzare il preconcetto per cui molti uomini davano per scontato che le loro mogli e le loro figlie avrebbero passato la loro vita chiuse in casa, «a guardare le pareti, i mobili, la lingeria e gli abiti, a tenere i libri d’entrata e d’uscita, a presiedere alla cucina, ad allevare il pollame e a rimediare gli indumenti che vanno logorandosi», per citare le parole del religioso. Nei confronti dei mariti che negavano alle proprie mogli la minima libertà d’azione, fra’ Antonio ebbe parole ferme e dure, dichiarando di aver personalmente conosciuto molte spose che avevano finito col vivere il matrimonio come una gabbia, a causa del comportamento insensatamente ottuso del proprio coniuge. Un atteggiamento che occorreva spezzare a tutti i costi: anche perché, costringendo in casa quelle spose e quelle figlie che avrebbero invece voluto realizzarsi anche al di fuori delle mura domestiche, la società nel complesso finiva col «trascurare un cumulo di energie preziose per la causa di Dio e del popolo».

La prima lotta politica delle femministe? Fermò un disegno legge sul divorzio

Non a caso, frate Antonio da Trobaso accolse con vivo entusiasmo e con abbondanti benedizioni la nascita de L’Azione Muliebre, una pubblicazione periodica nata in quello stesso 1901, a pochi mesi di distanza dal Congresso Femminista Cristiano, per iniziativa di un gruppo di terziarie francescane che avevano deciso di impugnare la penna per far sentire la loro voce.

La rivista, che fin dal primo numero si dichiarò al tempo stesso femminile e femminista, immediatamente volle operare una netta presa di distanza dal femminismo liberale che si stava diffondendo in quegli anni. Suo principale teorico era il filosofo britannico John Stuart Mill, che nel suo The subjection of women (1869) aveva criticato in maniera feroce l’istituto giuridico del matrimonio: provocatoriamente, l’autore l’aveva definito come l’ultima forza di schiavitù legalizzata ancora esistente, dopo l’abolizione della tratta dei neri negli Stati Uniti.

Posizioni estreme, che parvero del tutto irricevibili alle femministe cattoliche italiane: le quali, fin dal primo numero della loro rivista, vollero chiarire la loro distanza da queste posizioni. Non a caso, la prima lotta politica di queste attiviste fu una mobilitazione nazionale contro la proposta di legge Berenini-Borciani che nel 1902 aveva tentato di introdurre il divorzio. Da nord a sud, spronate dalle fermissime parole de L’Azione muliebre, migliaia di donne italiane scesero in campo contro questa riforma: fu una campagna che ebbe una vastissima eco nazionale e che, significativamente, fu interamente gestita e portata avanti da attiviste di sesso femminile. Una scelta simbolica e voluta: con garbata fermezza, le militanti rifiutarono di introdurre “quote azzurre” nei comitati locali. Le militanti ritenevano infatti che il divorzio fosse una problematica che riguardava le donne in maniera particolarissima, andando a toccare questioni vitali come la stabilità economica delle spose e il diritto a crescere i propri figli: era dunque opportuno che fossero proprio le madri di famiglia a portare avanti la battaglia politica contro questa legge. Ovviamente, Storia insegna che la battaglia fu vinta; il disegno di legge cadde con 400 voti contrari contro 13 a favore: una totale débâcle per i proponenti e una vittoria a tutto campo per le donne che, con tanto fervore, si erano mobilitate.

I modelli cui ispirarsi: le modernissime sante dei primi secoli

Strane donne, queste femministe cattoliche che prendono le distanze dal femminismo liberale e si gettano anima e corpo nella lotta a una proposta di legge che, almeno sulla carta, dichiarava di voler tutelare il gentil sesso. Ma chiarito quali erano le ideologie che queste donne non volevano abbracciare, quali erano dunque gli ideali di riferimento su cui esse modellavano il proprio attivismo?

Non sorprendentemente, erano le sante a esser considerate l’esempio perfetto di donne libere e forti. In una serie di articoli pubblicati su L’azione muliebre, Elena da Persico tratteggiò vividi ritratti delle figure aureolate che erano state per lei la maggior fonte di ispirazione: a partire da Tabita, citata negli Atti degli Apostoli e descritta come uno dei pilastri della nascente comunità cristiana di Ioppe.

Melania Giuniore, figlia di un senatore romano che, al fianco del marito, spese le sue ricchezze in attività caritative, fu considerata l’esempio luminoso di una donna che aveva saputo coniugare alla sensibilità e alla dolcezza virtù come determinazione e forza d’animo: doti che, a giudizio di Elena da Persico venivano popolarmente considerate d’appannaggio quasi esclusivamente maschile.

E la storia di santa Paola e delle sue tre figlie fu considerata emblematica per il modo in cui mostrava la varietà di vocazioni con cui una donna, se lasciata libera di scegliere, può legittimamente decidere di realizzarsi. Paola, monacatasi dopo essere rimasta vedova, fu così intraprendente da partire per la Terra Santa accompagnata dalla figlia Eustochio, che le rimase al fianco in questa sfida fondando assieme a lei numerosi monasteri. Paolina, la seconda figlia, si era realizzata in una quieta e felice vita matrimoniale; quanto a Blessilla, l’ultima delle tre sorelle, aveva deciso di mettere la sua intelligenza al servizio della Chiesa e aveva cominciato a studiare le Sacre Scritture, finendo col padroneggiare con disinvoltura gli scritti di Gerolamo, di Origene e degli altri padri della Chiesa.

Pie e devote, ma non per questo mammolette; rispettose dei ruoli, ma non schiave delle convenzioni; dedite alle cure domestiche, ma al tempo stesso acculturate, queste sante dei primi secoli parvero davvero modelli perfetti per la donna moderna di inizio Novecento. Tantopiù che – come scrisse Elena da Persico – anche queste sante erano state chiamate a vivere in tempi a dir poco difficili: «come il IV, così il nostro è secolo di decadenza morale, secolo di sfibramento di caratteri; nel nostro secolo come nel IV, il dilagare dell’immoralità è così spaventoso da far raccapricciare e così sfacciato da far tremare».

Insomma: agli occhi delle femministe cattoliche di inizio Novecento, erano sfide simili quelle che, a distanza di secoli, le sante e attiviste si trovavano a vivere. Cambiava il contesto, ma non l’idea di fondo: la convinzione di poterle vincere, attraverso una lotta da vivere (naturalmente!) alla luce del Vangelo.

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