Molti storici hanno collegato la popolarità della danza macabra al fortissimo shock provato dalla Cristianità durante gli anni della Peste Nera, che in un biennio falcidiò l’Europa provocando una mortalità senza precedenti e (grazie al cielo) senza pari nella Storia umana. Effettivamente, è molto probabile che la tragedia della peste e la moda iconografica una correlazione: i cicli pittorici dedicati alla danza macabra si moltiplicano a partire dal 1350, a due anni di distanza da quel tragico 1348 che vide la pandemia impossessarsi di tutta l’Europa. E, in alcuni casi, il richiamo alla pestilenza è addirittura esplicito: nel 1648, l’artista italiano Stefano Della Bella inciderà una danza macabra ispirandosi dichiaratamente alle scene che erano state descritte a Milano durante l’epidemia di manzoniana memoria.
L’incontro tra i tre vivi e la morte
Ma se lo shock della Peste Nera contribuì a rendere popolare questo motivo pittorico, rappresentazioni simili alla danza macabra sono attestate già a partire dal XII secolo. Proprio in quel periodo cominciarono a fare capolino nelle chiese vivide illustrazioni di corpi in transi, che era poi modo elegante che avevano trovato gli artisti dell’epoca per non parlare direttamente di “corpi in via di putrefazione”. A ben vedere, proprio di questo si trattava: rappresentazioni pittoriche, anche molto crude, di cadaveri nella fossa, talvolta accompagnate da frasi ad effetto che ricordavano al fedele l’immancabile «memento mori» (casomai l’immagine non fosse stata sufficiente a far passare il concetto).
Nel XIV secolo, le immagini dei corpi in transi cominciarono a essere reinterpretate secondo una nuova moda pittorica: quella che, nell’arte sacra, viene indicata come il tema dell’Incontro tra i tre vivi e la morte. In questo caso, i cadaveri (che ormai si sono trasformati in scheletri) escono dalla loro tomba e fronteggiano tre individui ancora vivi, frequentemente esortandoli con severe ammonizioni sulle linee di: «quel che siete, lo fummo anche noi; quel che siamo, lo sarete anche voi».
Questo, lo schema generico, che il singolo artista poteva poi declinare in sfumature sempre diverse. Per esempio, era frequente rappresentare, nei tre vivi, le tre diverse fasce d’età, permettendo all’artista di sottolineare le diverse reazioni di fronte alla spaventosa visione. Se il più giovane dei tre, ancora bambino, ritraeva lo sguardo spaventato, il più anziano, sentendosi ormai vicino alla morte, si chiudeva in una composta posizione di preghiera. L’uomo adulto, nell’impeto della giovinezza, sguainava la spada in un folle tentativo di difendersi: una scena di fronte a cui era inevitabile riflettere sull’inconcludenza di chi, letteralmente, sta lottando contro un destino inevitabile.
In un’altra variante di questo schema, i tre vivi erano equamente distribuiti a rappresentare le classi sociali del periodo: a fronteggiare gli scheletri erano dunque un nobile, un religioso e un popolano. Evidente il messaggio di fondo: per quante ricchezze un uomo possa aver posseduto in vita, davvero la morte sarà una livella capace di mettere tutti sullo stesso piano. O, per dirla con le parole dello Speculum peccatoris, un trattato sulla buona morte che ebbe grande diffusione nel Medioevo, «riflettere sulla brevità della propria vita induce a disprezzare il mondo»: o quantomeno, tutto ciò a cui il mondo tende a dare eccessiva importanza, trascurando ciò che conta veramente.
E, a partire dalla seconda metà del Trecento, al tema dell’incontro tra i vivi e la morte si affiancò il topos iconografico della danza macabra propriamente detta: gruppi di scheletri che vengono ritratti nell’atto di afferrare i viventi per trascinarli via con sé… o, semplicemente, per ballare con loro. E anzi: quello che è forse l’elemento più sorprendente di alcuni cicli pittorici dedicati alla danza macabra è l’apparente serenità con cui vivi e morti si stringono l’un l’altro in un girotondo; con un atteggiamento che sarebbe eccessivo definire “felice”, ma che in molti casi sembra denotare quantomeno una serena accettazione del destino ineluttabile che, prima o poi, attende tutti.
Quando si ballava per davvero la danza macabra
Potrà stupire, ma le danze macabre non erano qualcosa di limitato al mondo della pittura. Di tanto in tanto, venivano ballate per davvero; e vi sono indizi tali da farci sospettare che, almeno in alcuni casi, i ballerini indossassero addirittura delle maschere da scheletro, nel corso della performance.
Emblematica, sotto questo punto di vista, è la Dansa de la mort di cui abbiamo la fortuna di conoscere testo e partitura grazie a un manoscritto trecentesco che ce le ha conservate: il Llibre Vermell, prodotto nello scriptorium del monastero spagnolo di Montserrat.
Posto lungo il Camino di Santiago, e dunque meta di un influsso ininterrotto di pellegrini, il monastero di Montserrat si era organizzato in modo tale da offrire un… intrattenimento musicale ai viandanti che sostavano tra quelle mura. Il Llibre Vermell contiene infatti i testi e le musiche di numerosi canti a tema sacro (ma allegri, popolari, orecchiabili!) che quasi ogni sera venivano intonati a vantaggio dei pellegrini che erano arrivati nel corso della giornata. Tra questi, v’è anche la Dansa de la mort, che ricordava ai fedeli la caducità della vita umana e l’importanza della confessione (un sacramento che infatti sarebbe stato offerto ai viandanti l’indomani mattina).
Anche nota con il titolo di Ad mortem festinamus, dal primo verso del ritornello, la canzone era un ball rondò, cioè una specie di girotondo: i ballerini, probabilmente mascherati da scheletro, danzavano in tondo tra salti e piroette mentre il coro intonava una lunga canzone che, per la melodia allegra, non avrebbe stonato in una festa di paese. Ma i temi affrontati erano di tutta serietà: «ci affrettiamo all’ora della morte, non pecchiamo più! Non pecchiamo più!» diceva il ritornello martellante, mentre le strofe ricordavano ai fedeli che «ben presto avrà termine la nostra vita: la morte accorre rapida e non rispetta nessuno». Il che vuol dire che «se non ti converti, se non ti fai umile, se non cambi vita dandoti alle buone opere, non potrai entrare da beato nel regno di Dio». Ma non bisogna disperare: «se contempliamo come si deve la passione di Cristo, se piangiamo lacrime amare di pentimento, egli ci proteggerà».
Raccomandazioni di buon senso, tutto sommato, che ancor oggi vengono impartite durante le catechesi. Ma proviamo a metterci nei panni di quegli uomini medievali che si sentivano ripetere questi insegnamenti da una banda di scheletri danzanti che, tra una piroetta e l'altra, fingevano di volerli portare via: l’impatto emotivo doveva essere fortissimo! Forse una catechesi un po’ estrema, quella orchestrata dai monaci di Montserrat… ma efficace di sicuro, a voler usare un eufemismo.