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Parole per il Sinodo. La baracca dei preti

Dachau
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Don Fortunato Di Noto - pubblicato il 24/10/22
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Anche i luoghi più impensati e lontani come un campo di concentramento è possibile trovare l'umanità che si raccoglie attorno a Cristo

La baracca dei preti.

La baracca della mia infanzia.

Durante la mia infanzia si era soliti costruire, negli spazi circostanti le case, una sorta di baracca, fatta di cartone, lamiera e legno raccolti per strada. Era il rifugio della compagnia dei monelli. In quello spazio, ci si incontrava, si discuteva animatamente, si elaboravano strategie per le scorribande notturne (suonare campanelli, rubare al mercato una mela, fare scorte di cioccolato, fumare di nascosto ed altro ancora) e si progettava cosa fare per ‘sopravvivere’ nella giungla della città.

L’obiettivo principale era quello di organizzare incursioni contro quanti ci volevano sopraffare perché si ritenevano ‘i più forti’, i più ricchi, i più ‘ariani’.

Era altresì il luogo dove si recitava il S. Rosario e al contempo il luogo dove si pianificava quando rubare le ostie al parroco per fargli un piacevole dispetto; capimmo dopo, durante la confessione, il motivo del sonoro ceffone: il parroco sapeva!

Nella baracca ci si incontrava per ‘sopravvivere in fraternità’. La visita del parroco.

Era tutto confinato tra il gioco e le prime rudimentali costruzioni delle armi interiori per strutturare l’autodifesa e la condivisione di ideali, di intenti comuni e di valori. Era un rifugio di sopravvivenza.

Il parroco ci venne a visitare: fu una sorpresa; ma quella presenza, cambiò molto la baracca.

Comprendemmo cammin facendo che non bisognava compiere le azioni di offesa e le marachelle; non erano quelle le ragioni del nostro convenire in baracca.

Era un luogo di preghiera semplice: il Padre nostro e l’Ave Maria risuonavano nell’amplificato calore delle lamiere e nel freddo invernale del vento che passava dalle fessure.

La baracca dei ribelli divenne una basilica di umanità e fraternità.

Le più grandi baraccopoli del mondo.

Nel mondo, più di un miliardo di persone vive nelle baraccopoli (città delle baracche). Agglomerati di lamiera, di cartone e di altro materiale risultano essere l’esito della migrazione massiccia dalle zone rurali verso la città; un fenomeno tipico dei paesi in via di sviluppo, che è tuttavia sinonimo di aumento delle disuguaglianze economico-sociali a favore di pochi.

Prima di noi e ancora oggi, le baracche furono anche realizzate per altri scopi: internare i nemici dello Stato, i diversi e gli inutili per la società.

Le baracche, in molti casi, ci ricordano l’esclusione, la marginalità, le periferie degli scartati; ci ricordano la disumana azione di uomini contro i propri simili. L’aberrazione più abietta e più sofisticatamente malvagia contro coloro ritenuti ‘nemici’, gli scartati della società.

Eppure, in quelle baracche, si esplicava la vita umana; si celebrava la straordinaria bellezza di una liturgia di vita che le trasformava in ‘basiliche di luce, di vita, di fraternità, di condivisione, di fede, di umanità’, nonostante la diretta e indotta bruttura dei ‘costruttori di malvagità’ e di esclusione.

Nella ‘città dei miseri’, nei variegati colori delle baracche, ancora oggi, c’è la baracca della bellezza di Dio, che non dimentica nessuno.

Quanti sacerdoti potrebbero raccontare la presenza nelle baracche e l’edificazione ricevuta da questo popolo di Dio emarginato, vilipeso, dimenticato, sfruttato: dalle bidonvilles argentine che come vescovo Bergoglio (Papa Francesco) visitava e inviava i suoi preti, o le baracche di Roma negli anni sessanta don Roberto Sardelli acquistò una baracca di una prostituta e fondò la scuola del riscatto. Le esistenze visibili che diventavano visibili: guardate e amata da Dio e dalla Chiesa che ama tutti. Ricordo, con commozione, durante la mia permanenza a Roma, le permanenze nelle baracche delle periferie romane: sono diventato più sacerdote.

La baracca dei preti. Una storia stupefacente.

Ho ritrovato fra le mani un libro dal titolo più che suggestivo, La baracca dei preti1, che parla della vita dei preti, dei religiosi e dei diaconi, rimasti umani nonostante l’azione delle SS, che facevano di tutto per disumanizzare e avvilire (con vessazioni corporali e psicologiche, oltre che con l’uccisione), i discepoli del Signore, i ministri del Suo amore, la cui identità sacerdotale veniva vissuta con stupefacente dignità.

La frase di S. Paolo è incoraggiamento, consolazione e forza per chi si trovasse nelle situazioni estreme, così come fu per i preti della baracca n. 26 a Dachau; per chi venisse escluso, emarginato, vessato, dimenticato, ucciso:

Quanti sacerdoti, religiosi, diaconi, vescovi, oggi si trovano in un ‘campo di persecuzione’…. dentro la baracca n. 26!

Quanti sacerdoti, religiosi, diaconi, vescovi stanno vivendo oggi una profonda crisi a causa di una ostile società immersa nella secolarizzazione, nella mondanizzazione, che ha perso la propria identità ed è ormai liquida e magmatica. Come reagire nei confronti dei nemici che ‘ridono di noi’ (Salmo 79,7)? Come ritrovare la ‘spiritualità’ che spesso è sostituita con un sincretismo spirituale isterico e tossico? Come custodire la fede, se la stessa non è generata dall’ascolto della Parola e non è nutrita dalle ‘briciole di pane’ eucaristico e dall’opera della carità?

La baracca dei preti a Dachau.

Dachau era il principale campo di detenzione per i preti cattolici, protestanti e ortodossi. Tra il 1938 e il 1945, ve ne sono stati deportati 2.579 fra religiosi, diaconi e vescovi cattolici, dei quali 1173 provenivano dalla Polonia, gli altri da ogni parte d’Europa (Germania, Austria, Cecoslovacchia, Polonia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Francia e Italia); 1034 sono morti nel campo di concentramento e di sterminio, dove una serie di strutture era destinata a imprigionare e poi eliminare i cosiddetti “nemici dello Stato2

I primi ad arrivare al campo furono gli oppositori politici, seguiti dagli austriaci arrestati dopo l’annessione del loro paese.

Poi vi furono imprigionati gli ebrei, i rom, i sinti, i disabili, gli omosessuali e tutti coloro che il regime considerava soggetti indesiderabili.

Il Vaticano non poté impedire la loro deportazione ma riuscì almeno a farli deportare tutti insieme a Dachau.

I nazisti arrestarono i preti  perché si opponevano al programma di eutanasia, perché avevano partecipato alla Resistenza o perchè erano anche soltanto sospettati di aver contribuito in qualche modo alla lotta antinazista.

Molti vennero deportati semplicemente perché avevano osato condannare il regime dai pulpiti. Furono fin da subito isolati dagli altri prigionieri e alloggiati nella baracca 263, il cosiddetto “Pfarrerblock” (reparto dei preti), che oggi non esiste più.

Soltanto due delle trentaquattro baracche che un tempo componevano il campo, fedelmente ricostruite, di fronte all'edificio del museo, sull'altro lato della piazza delle adunate, sono rimaste a testimoniare quanto accaduto. Le altre sono state rimosse, sebbene siano ancora ben visibili i perimetri a terra.

La statura morale dei preti.

Anche Primo Levi ebbe modo di riconoscere nelle sue opere l’enorme statura morale dei preti deportati a Dachau, i quali cercarono in tutti i modi di rafforzare la loro fede, non persero la speranza e si dedicarono all’aiuto e all’assistenza spirituale dei malati e dei moribondi.

La piccola cappella nella baracca.

Le pressioni del Vaticano riuscirono a far aprire una piccola cappella all’interno del blocco 26, dove il 21 gennaio 1941 venne celebrata la prima messa nel campo. Il tabernacolo fu costruito di nascosto nel laboratorio dei falegnami, ma il prete era costretto a celebrare da solo.

Ai detenuti era vietato partecipare e la comunione veniva distribuita segretamente, a costo di gravi rischi.

L’ordinazione sacerdotale in punto di morte.

A Dachau si tenne anche l’ordinazione clandestina di un seminarista in punto di morte. Il tedesco Karl Leisner ricevette il sacramento dal vescovo francese di Clermont-Ferrand, monsignor Gabriel Piguet.

Sottoposti allo stesso trattamento disumano di tutti gli altri prigionieri, 1.034 religiosi cattolici non uscirono vivi dal campo, morendo di fame, di stenti, di prostrazione e di malattie. Su molti di essi furono anche effettuati esperimenti medici fatali. Fu un lento martirio che ricordò le persecuzioni subite dalla Chiesa dei primi secoli e trasformò il lager bavarese nel più grande cimitero di sacerdoti cattolici del mondo.

Stupefacente dignità, l’identità sacerdotale mai scalfita.

Nonostante le atroci sofferenze, l’identità sacerdotale non venne scalfita. I sacerdoti, infatti, mantennero una ‘stupefacente dignità, nonostante le SS facessero di tutto per disumanizzare e avvilire i prigionieri. Paolo VI sottolineò questa straordinaria testimonianza di coraggio cristiano il 16 ottobre 1975, quando ricevette in udienza duecento di loro, lodandone la fedeltà dimostrata in quelle terribili circostanze.

Quale insegnamento da queste vite sacerdotali esemplari dentro l’inferno di un campo di sterminio?

I sacerdoti deportati a Dachau si sono impegnati a mantenere vive le virtù di fede, speranza e carità.

Impegnati a mantenere il tesoro prezioso dell’eredità donata dal Cristo risorto, dalle briciole di pane alla preghiera di lode e alla comunione spirituale nell’appartenenza ad una comunità di redenti, di salvati, di fratelli. La fratellanza divenne l’evidente stile spirituale per la sopravvivenza.

Per eludere il controllo, le ostie consacrate venivano portate nei pacchetti vuoti delle sigarette e quando il sacerdote non riusciva a raggiungere qualche laico, amico di Gesù, vicino ai sofferenti, si offriva come ‘ministro della comunione’, rischiando la morte.

La santità nella baracca.

La santità nella baracca era un miracolo del Vangelo, in un campo di sterminio dove tutto doveva servire a degradare, a imbestialire, a schiacciare l’uomo.

Per contro, tutto diventava ‘bellezza’ nel volto sfigurato di Gesù e dei fratelli e delle sorelle.

Il Sacramento diventava dunque possibile sopravvivenza per chi lo riceveva; una comunione sacramentale che ha generato conforto e fraternità.

56 Beati. Su iniziativa di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco, 56 religiosi morti nel campo di sterminio sono stati beatificati dopo essere stata riscontrata la pratica delle virtù naturali e cristiane in modo esemplare o eroico.

Forse anche oggi, in un mondo che vive una seria crisi di fede (anche tra i vescovi e i sacerdoti) la Chiesa dovrebbe umilmente vivere un esperienza improntata sul modello della baracca n. 26, sul modello delle baracche dove tanti sacerdoti e fedeli vivono, pur nelle difficoltà, la fede. Superamento e antidoto della rassegnazione e della crisi di fede.

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1 Guillaume Zeller, La Baraque des pretres, Dachau, 1938-1945, Editions Tallandier, 2015

2 https://encyclopedia.ushmm.org/content/it/article/nazi-camps

3 Guillaume Zeller, La Baraque des pretres, Dachau, 1938-1945, Editions Tallandier, 2015

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