Nulla, a oggi, si è conservato del monastero di Dalheim, in Germania.
Non il monastero, che fu raso al suolo da un incendio nel XIV secolo.
Non l’archivio prodotto dalla comunità monastica, che andò distrutto nello stesso rogo.
Restano alcune fonti indirette; ma la verità è che la comunità di Dalheim sembrava condurre una vita molto ritirata anche nei secoli in cui era attiva. Solamente in tre occasioni (nel 1244, nel 1264 e nel 1278) le cronache cittadine citano, en passant, un monastero che era stato edificato nel IX secolo e che, all’epoca, ospitava una comunità di religiose che vivevano secondo la regola agostiniana. Null’altro si sa di queste donne: non conosciamo i nomi delle loro badesse, non sappiamo quale fosse la loro provenienza, né come impiegassero le loro giornate, né cosa facessero per vivere. Le fonti storiche non ce ne parlano.
Conosciamo però, e con esattezza, il luogo in cui sorgeva il monastero. Gli archeologici lo scoprirono nel corso di una serie di scavi che, a partire dal 1988, portarono alla luce le fondamenta dell’edificio: una struttura capace di ospitare quattordici donne contemporaneamente. Ma le scoperte non si fermarono qui: annesso al monastero fu individuato anche un cimitero, evidentemente in uso alla comunità religiosa, che per tutti questi secoli aveva silenziosamente custodito gli scheletri appartenuti alle monache del luogo.
Ritrovare scheletri medievali in buono stato di conservazione è una manna dal cielo per i ricercatori, che spesso riescono a trarre informazioni preziose da questi reperti archeologici. Fu così che, nel 2014, un team di studiosi dell’università di Copenhagen prese alcuni degli scheletri rinvenuti a Dalheim e iniziò ad analizzarli nell’ambito di una ricerca dedicata alla salute dentale degli uomini medievali.
Ed è qui che questa storia entra nel vivo: analizzando il tartaro dentale di una delle monache di Dalheim, i ricercatori fecero una scoperta che definire “bizzarra” è dire poco. Sui denti della religiosa, se ne stava del tartaro di un vivace colore blu.
La monaca coi denti macchiati di blu
Sia chiaro: non è che la monaca sfoderasse sorrisi blu elettrico tutte le volte che apriva bocca per parlare. Tuttavia, i ricercatori si stupirono non poco nel trovare, nel mezzo degli accumuli di tartaro, decine e decine di vistose particelle di un deciso colore blu acceso; fra l’altro, collocate su più di un dente e presenti a profondità diverse nell’accumulo di tartaro. Qualsiasi cosa fosse quella roba blu, era chiaro che era entrata in contatto con la bocca della donna in ben più d’una occasione.
Il ritrovamento destò negli scienziati una comprensibile curiosità.
Il primo step fu cercare di capire qualcosa di più sull’identità della monaca in questione: in un test al radiocarbonio permise di collocarne la morte in un lasso di tempo compreso tra il 997 e il 1162. Analisi ulteriori portarono ad affermare che, al momento del decesso, la monaca doveva essere una donna di mezza età (indicativamente, dai quarantacinque ai sessant’anni), deceduta per ragioni non meglio precisate senza che il suo scheletro riportasse traccia di eventi traumatici. A livello di salute orale, i suoi denti erano perfettamente sani a esclusione degli accumuli di tartaro già menzionati e a esclusione di due molari che mancavano all’appello, presumibilmente estratti a seguito di una carie.
Scava e scava, i ricercatori portarono alla luce oltre un centinaio di minuscole particelle blu accumulatesi all’interno del tartaro di questa monaca: se ne trasse l’impressione che le fossero entrate in bocca come in una specie di sottile polverina. A questo punto, gli scienziati le portarono in un laboratorio specializzato per capire di che si trattasse esattamente; e rimasero stupefatti nel realizzare di avere in mano tanti piccoli frammenti di lapislazzulo.
Dire che “la cosa si stava facendo interessante” è dire poco. I lapislazzuli costano: come faceva una monaca dell’anno mille ad averne centinaia di frammenti incastrati in mezzo ai denti? Disarmati, i ricercatori passarono la palla agli storici… e costoro avanzarono l’unica ipotesi ragionevole: la monaca era un’amanuense che miniava manoscritti di lusso, utilizzando la polvere di lapislazzulo per dare colore ai suoi dipinti.
Un’amanuense donna? Ebbene sì!
Per miniare manoscritti di un certo pregio, era quasi inevitabile far largo uso di pigmenti blu, ottenuti a partire dalla polvere di lapislazzulo.
E sono molte le fonti in nostro possesso a farci supporre che i miniatori fossero soliti portare alle labbra il pennello con cui stavano lavorando, per inumidirlo con la saliva, al fine di rendere il tratto più sottile quando dovevano creare piccoli dettagli.
Un’abitudine che, inevitabilmente, faceva sì che piccole dosi di pigmento venissero introdotte nella cavità orale: non è implausibile pensare che, in tal modo, alcuni di questi piccoli pigmenti finissero col depositarsi sui denti finendo col rimanere lì in saecula saeculorum.
È dunque questo il modo in cui un centinaio di minuscoli pezzetti di lapislazzulo finì nella bocca della monaca dai denti blu? I ricercatori lo definiscono lo scenario più probabile: la nostra amica fu una abile amanuense, specializzata in miniature. Talmente curato doveva essere il suo tratto, che le furono evidentemente commissionati codici di un certo pregio, tali da richiedere un uso sistematico del prezioso pigmento blu.
Fu una scoperta non da poco. Dando alle stampe nel 2019 il frutto delle loro ricerche, gli studiosi fecero notare che questa è la prima evidenza diretta circa l’utilizzo di un pigmento così costoso, da parte di artiste di sesso femminile. Astrattamente, i medievisti già immaginavano che i monasteri femminili fossero dotati scriptoria di tutto rispetto. Ma, soprattutto per quanto riguarda la zona della Germania, sono molto scarse le informazioni storiche riguardo le amanuensi di sesso femminile e la produzione libraria a loro riconducibile, soprattutto in epoche così remote.
Ebbene: attorno all’anno Mille, nel piccolo monastero di Dalheim, doveva certamente esistere uno scriptorium di grande pregio, così apprezzato da potersi permettere l’uso frequente di pigmenti tra i più costosi.
Ed è francamente sorprendente pensare che questo dettaglio sia stato portato alla luce dai denti di una monaca morta da un millennio: sorprendente, soprattutto perché la comunità di Dalheim ha lasciato davvero poche tracce di sé, nelle fonti storiche. Di queste suore laboriose si sarebbe persa la memoria… se non fosse stato per un po’ di tartaro su una di loro.
La Storia è davvero in grado di sorprendere; anche quando tutto sembra esser destinato a sprofondare nell’oblio.