Trappiste, francescane, benedettine, d’abbazia: non stiamo citando le famiglie religiose, ma (nel caso di specie) le tipologie di birra che da queste famiglie furono inventate nel Medioevo (e che, in alcuni casi, ancor oggi vengono prodotte in appositi birrifici all’interno del monastero).
E qualcuno potrebbe anche domandarsi, col sorriso sulle labbra: ma questi monaci medievali non avevano niente di meglio da fare, rispetto al darsi alla birrificazione? A prima vista, un sacello pieno di religiosi dediti all’ascesi non è esattamente quel tipo di posto in cui ci aspetteremmo di veder nascere birrifici su larga scala.
In realtà, la storia dietro ai birrifici monastici è più complessa di quanto forse immaginiamo; e, come tutte le storie belle, merita di esser raccontata. E soprattutto, analizzata in tutte le sue implicazioni.
Ma perché bevevano così tanta birra?
Occorrerà partire da una premessa: la birra che veniva bevuta nel Medioevo era qualcosa di significativamente diverso rispetto alla birra che oggi ordiniamo al pub.
Quella che veniva consumata all’epoca era, più precisamente, cervogia: non si trattava, stricto sensu, di una bevanda da consumare nei momenti di festa; al contrario, veniva preparata con lo stesso spirito con cui le nostre nonne cucinavano per cena il semolino. La cervogia era un cibo a tutti gli effetti (ancorché dalla consistenza piuttosto liquida), che serviva a soddisfare il fabbisogno alimentare della famiglia: era una via di mezzo tra la birra e il pastone, dalla consistenza probabilmente simile a quella dello yogurth.
Tre, le caratteristiche fondamentali che la distinguevano dalla birra moderna: non conteneva luppolo, non veniva filtrata e aveva una bassissima gradazione alcolica. E infatti veniva comunemente consumata a colazione da tutti i membri della famiglia, bambini inclusi.
Quarta differenza non trascurabile: faceva un po’ schifo a tutti. Frequentemente citato dagli storici è l’aneddoto per cui san Luigi di Francia (1214 – 1270) beveva cervogia lungo tutto la Quaresima, a titolo di fioretto, sostituendola a bevande più pregiate. Un dettaglio eloquente, che la dice lunga sulla scarsa considerazione di cui godeva all’epoca la bevanda.
Però era alimento nutriente, che costava molto poco e che si conservava a lungo: tanto bastava per renderlo utile agli occhi della brava gente, che infatti lo preparava in quantità.
Naturalmente, queste quantità diventavano particolarmente significative nelle grandi abbazie, centri che all’epoca potevano facilmente giungere a ospitare più di un centinaio di monaci – senza contare visitatori occasionali, pellegrini, mendicanti.
Se vogliamo dar credito a una stima fatta all’epoca di Carlo Magno da sant’Adelardo di Corbie, ognuno dei monaci residenti nella sua abbazia consumava ogni anno 500 litri di cervogia (!), che non servivano solamente a togliere la fame ma erano anche un sostituto dell’acqua potabile. In un’epoca in cui non era così scontato che l’acqua del pozzo fosse sempre salubre, il consumo di vino o birra sembrava preferibile anche perché l’esperienza aveva insegnato che, misteriosamente, le bevande alcoliche tendevano a non trasmettere malattie.
E così nacquero i birrifici monastici
Chiaro è che, se devi mandare avanti un’abbazia in cui risiedono decide di uomini che consumano 500 litri di cervogia all’anno, tanto vale dotarsi di una linea di produzione interna capace di soddisfare questo fabbisogno smisurato: e così, i monasteri cominciarono a dotarsi di veri e propri birrifici. La “pianta di San Gallo”, un progetto architettonico composto nel IX secolo per descrivere tutte le strutture che avrebbe dovuto avere il perfetto monastero, dedica uno spazio considerevole alle strutture che avrebbero dovuto essere adibite alla produzione della birra.
Secondo le indicazioni dell’anonimo architetto, ogni monastero avrebbe dovuto essere provvisto di una malteria, con una zona di germinazione nella quale i cereali venivano fatti germogliare. Contiguo alla malteria, doveva essere un essiccatoio, con grandi vassoi di vimini attorno a una canna fumaria in cui disporre i cereali; che, una volta pronti, venivano portati al mulino per la macinazione. L’ultima fase della preparazione aveva luogo nel birrificio vero e proprio, là dove la cervogia veniva aromatizzata e poi lasciata a fermentare.
Va da sé: sono poche le realtà che possono permettersi una struttura così complessa. E così, per molti secoli, la produzione di birra su larga scala fu prerogativa dei centri monastici, nei quali intanto venivano affinate le ricette e le tecniche di produzione. I primi birrifici “laicali”, se così vogliamo definirli, nacquero attorno al XIII secolo a seguito di un forte fenomeno di migrazione che spinse molti contadini ad abbandonare le campagne, trasformando i centri cittadini in piccole metropoli sempre più popolose.
A quel punto, guardando quella accresciuta platea di clienti potenziali, alcuni imprenditori cominciarono a trovare conveniente l’idea di creare birra su larga scala, da rivendere a basso costo e già pronta all’uso. E i monaci furono ben lieti di condividere il know-how che avevano accumulato attraverso i secoli: del resto, le abbazie non producevano birra per arricchirsi e non avevano interesse a conservare il segreto industriale.
Era ancora molto lunga, la strada che avrebbe portato alla nascita della birra moderna come la intendiamo oggi, ma un passo era stato fatto: la birra “industriale” era uscita dai conventi per arrivare sulle tavole dei comuni cittadini.
Verrebbe da dire, col sorriso sulle labbra, che anche in questo modo la Chiesa aveva fatto un dono all’umanità.
Vi piace l’Opzione Benedetto? Scoprite l’Opzione Birra!
E davvero la birra monastica è un dono prezioso che dovremmo sforzarci di mettere a frutto, scriveva nel 2018 Jared Staudt, oblato benedettino, dando alle stampe un testo dal titolo suggestivo di The Beer Option, in evidente omaggio a quella “Opzione Benedetto” che aveva reso celebre Rod Dreher. Tra il serio e il faceto (ma con una dose di serietà decisamente superiore a quella di facezie), Staudt presenta la sua “Opzione Birra” come un corollario alla teoria di Dreher, ritenendo che l’operosa laboriosità con cui monaci di un tempo avevano fondato i primi birrifici possa essere d’esempio per tutti quei laici d’oggi che aspirano a «far fermentare l’economia locale» e «radunare la comunità in momenti di festa e di amicizia».
Guardando allo spirito con cui nelle cantine abbaziali venivano stipati barili e barili di birra, da condividere con chiunque avesse bussato alla porta, Staudt ritiene che i cristiani d’oggi potranno imparare (o forse re-imparare) «a servire il prossimo tramite l’ospitalità che si accompagna all’evangelizzazione». Perché anche davanti a un calice di birra bevuto in allegria possono essere intessute relazioni profonde e durature; anzi: forse forse, la birra aiuta pure a mettere gli animi nella giusta predisposizione.
In effetti, l’autore non ha torto nel dire che «la birra è un prodotto della cultura cattolica»: anche questa, a suo giudizio, una lezione non dimenticare.
Certo: la cultura cattolica dell’Occidente medievale ha prodotto molte altre cose (!) di non trascurabile valore; ma è pur vero che, nel suo piccolo, anche la birra nasce nei monasteri e da lì si diffonde in tutto il mondo. Jared Staudt, da grande amante del luppolo, ritiene che anche questo sia un buon esempio del modo in cui una comunità cristiana, quando si tira su le maniche e si mette a lavorare sodo, ha il potere di plasmare, e modificare in meglio, il territorio e la società che la circonda.
Uno spunto di riflessione a dir poco suggestivo. Cui, in effetti, non si può dar torto.