Era stata santa Teresa di Lisieux a dargli l’ispirazione per quel discorso destinato a passare alla Storia. Fu il papa stesso ad affermarlo, proprio quella sera, poco dopo aver salutato le folle che si erano riunite in piazza San Pietro: «non sapevo proprio cosa dire», aveva confidato al suo segretario, Loris Capovilla: «mi sono rivolto alla mia Teresina».
Non stupisce che san Giovanni XXIII avesse sentito l’esigenza di un piccolo aiuto dall’alto. In quell’11 ottobre 1962, mentre una folla di fedeli si riuniva sotto alla sua finestra, commossa ed emozionata per l’apertura del Concilio Vaticano II, papa Roncalli non aveva la minima intenzione di affacciarsi. Era comprensibilmente stanco, provato da una lunga giornata di lavoro e di emozioni intense. Fu Loris Capovilla, il suo giovane collaboratore, a dover insistere: «quando gli suggerii di guardare almeno lo spettacolo offerto dalla piazza, attraverso le tapparelle chiuse, guardò e si commosse. E non seppe più resistere. Fece aprire la finestra».
Nasceva così il “discorso della luna”, probabilmente uno dei più famosi della storia ecclesiastica. Dopo quel primo, poetico, accenno alla luna che brillava sulla piazza, papa Roncalli confidò ai fedeli le emozioni che lo avevano accompagnato quel giorno: sia a livello ufficiale («questa mattina è stato uno spettacolo che neppure la basilica di San Pietro, nei suoi quattro secoli di storia, ha mai potuto contemplare») sia a quello forse più privato («questa sera lo spettacolo offertomi è tale da restare ancora nella mia memoria, come resterà nella storia»). E non sbagliava.
Ai fedeli radunati in piazza, rivolse una preghiera: «facciamo onore alle impressioni di questa sera!».
In che modo?
Per esempio, cercando la coesione invece delle contrapposizioni («proseguiamo a cogliere quello che ci unisce, lasciando da parte, se c’è, qualche difficoltà») e lottando per non perdere la capacità di guardare il mondo con occhi pieni di speranza («specialmente nelle ore della tristezza e dell’amarezza»: «sospirando, piangendo, ma sempre, sempre pieni di fiducia nel Cristo che ci aiuta e che ci ascolta»).
La buonanotte ai Romani di papa Pio IX
Con quella spontaneità confidenziale che solo i discorsi a braccio sanno trasmettere, le parole indimenticabili di Giovanni XXIII si guadagnarono a buon diritto un posto importante nella storia del Novecento. E fu proprio questa popolarità a spingere gli studiosi a cercare precedenti storici del “discorso della luna”: per esempio, una scena molto simile si svolse alla metà dell’Ottocento e vide protagonista un pontefice che forse, a primo acchito, non ci verrebbe in mente di accostare a papa Roncalli.
Stiamo parlando di papa Pio IX, di cui il beato Federico Ozanam era grande ammiratore. Ed è proprio il giornalista francese, apologeta e fondatore della Società San Vincenzo De Paoli, a descrivere l’evento in una lettera che, nell’aprile 1847, inviava ai suoi fratelli Charles e Alphonse.
Il 21 aprile, la città di Roma aveva festeggiato i 2600 anni dalla sua fondazione. Dopo una giornata di grandi festeggiamenti, il papa (che, all’epoca, come ben sappiamo era anche re) volle stupire la popolazione con una riforma del tutto inattesa. All’alba del 22 aprile 1847, Roma si svegliò con la notizia per cui il papa-re «ordinava che ogni provincia inviasse il nome di tre cittadini di rilievo, uno dei quali sarebbe stato scelto dal governo per venire a Roma in via permanente» al fine di lavorare a «una riforma completa delle istituzioni municipali». La notizia entusiasmò la popolazione: di fatto, il provvedimento avrebbe permesso ai semplici cittadini di partecipare direttamente alla gestione della cosa pubblica. Ovviamente, si trattava di una riforma di tutt’altro genere rispetto a quella portata avanti da papa Roncalli; ma, seppur per ragioni diverse, anche in quella sera del 1847 soffiava su Roma un vento frizzante carico di novità.
Quella sera, mentre Ozanam e i suoi accompagnatori stavano già per tornare in albergo, «ci annunciarono che tutta la città si preparava per ringraziare il papa del nuovo editto e che ci sarebbe stata una bella festa con le fiaccole». Uno spettacolo da non perdersi: e infatti l’uomo si affrettò a unirsi a quel serpentone composto da circa seimila persone che sfilarono lungo la via del Corso fino al palazzo del Quirinale, dove all’epoca il papa aveva residenza.
E, a sorpresa, il papa si affacciò. «Sembrava dolcemente commosso dalla riconoscenza che gli si testimoniava e salutava a destra e a sinistra con molta grazia. Il papa ha fatto un gesto e subito si è sentita una sola parola, “zitti”, e in meno di un minuto il silenzio regnava tra questa folla inebriata. Allora si è potuta sentire la voce del pontefice che si alzava per benedire il suo popolo»; dopodiché «un gran grido di amen si è alzato da un capo all'altro della piazza. Nulla di più bello di questa intera città che pregava con il suo vescovo a quell’ora avanzata della notte, al chiarore delle stelle, con un cielo superbo».
Con dolcezza, Ozanam commenta: «Questi romani erano andati a dormire come degli onesti bambini che, prima di addormentarsi, avevano voluto dire buona notte al loro padre»; e chissà se Giovanni XXIII era al corrente di questo episodio e l’aveva visto riaffacciarsi alla memoria, quando (un secolo più tardi, all’alba di un’altra riforma) raccomandò ai suoi “figli” radunati in piazza di portare ai più piccini la «carezza del papa».
Gaudet Mater Ecclesia: un discorso di speranza
Il “discorso della luna” di Roncalli si guadagnò a buon diritto le prime pagine dei giornali; ma faremmo torto a san Giovanni XXIII se non dessimo conto delle parole che il papa aveva pronunciato quella mattina stessa, aprendo ufficialmente il Concilio Vaticano II. Anzi: mentre tentennava di fronte alla finestra chiusa, incerto se affacciarsi oppure no su quella piazza colma di gente, il papa aveva confessato ai suoi collaboratori di essere a corto di idee; tutto quello che gli stava a cuore, l’aveva già detto nel discorso che aveva pronunciato quella mattina.
Non è difficile credergli, perché il Gaudet Mater Ecclesia è davvero un piccolo capolavoro che merita di essere riletto. In quelli che (come papa Francesco ha ben ricordato nell’Angelus della scorsa domenica) erano momenti di grande tensione sotto numerosi punti di vista, Giovanni XXIII aveva criticato l’atteggiamento di quei «profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo». Certo: nel contesto, il papa si rivolgeva innanzi tutto a quei fedeli che piangevano in gramaglie per il destino di una Chiesa che, secondo loro, era moribonda («come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa»!).
Ma, a un livello più ampio, è commovente leggere a distanza di sessant’anni l’affettuoso rimbrotto con cui Giovanni XXIII ammoniva quei fedeli incupiti e brontoloni che «nelle attuali condizioni della società umana […] non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia».
A distanza di sessant’anni, anche queste parole sono diventate storia. Il papa santo ci direbbe forse: fate tesoro di questa lezione.