Quando, nel 1876, padre Scalabrini compì la sua prima visita pastorale in diocesi di Piacenza, di cui era appena stato nominato vescovo, ebbe cura di informarsi sul numero di fedeli che in quel momento si trovavano lontani perché emigrati all’estero. Gli risposero con una cifra impressionante: circa 28.000.
Era un numero così alto da far girar la testa e, soprattutto, da far venire una stretta al cuore, anche perché il vescovo neo-eletto aveva opinioni molto ferme riguardo il fenomeno delle migrazioni: lo riteneva un dramma forzato, senza mezzi termini.
Si era confrontato col tema per la prima volta molti anni prima, quando era un giovanissimo curato che prestava servizio in alcune parrocchie della Valtellina, in un’epoca in cui quelle vallate alpine costituivano uno dei più grandi serbatoi di migranti di tutta Italia. Il giovane sacerdote aveva avuto modo di parlare a lungo con chi si apprestava a partire per l’Oltremare e con chi, al contrario, rimaneva a casa, a piangere la lontananza di un marito lontano. Erano state queste esperienze dirette, queste chiacchierate a tu per tu con chi viveva l’emigrazione sulla sua pelle, a far maturare in padre Scalabrini l’idea che abbandonare la propria patria fosse sempre - e inevitabilmente - un dramma.
Il giovane sacerdote meditò lungo su questi temi, con una riflessione che si fece più profonda e urgente nel momento in cui, divenuto vescovo di Piacenza, si trovò a dover indirizzare quella moltitudine di pecorelle che si accingevano rassegnate a lasciare il loro gregge.
Il dramma della migrazione secondo padre Scalabrini
Nel 1887, Giovanni Battista Scalabrini diede alle stampe un opuscolo dedicato a L’emigrazione italiana in America. Osservazioni, che contiene la summa del suo pensiero su questo tema. Certamente, il sacerdote ammetteva la possibilità che vi fosse un certo numero di migranti che davvero partivano per libera scelta e con entusiasmo, avendo un progetto forte da perseguire ed essendo animati dalle reali convinzioni di poter trovare all’estero le condizioni migliori per realizzarlo. Nel qual caso, va da sé: in bocca al lupo; anzi, occorreva fare tutto ciò che era possibile per sostenere e incoraggiare questi intraprendenti viaggiatori.
Ma Scalabrini era convinto che la stragrande maggioranza dei migranti avrebbe di gran lunga preferito non migrare affatto, solo avesse avuto la possibilità di condurre una vita dignitosa nel paese natio. Quando un uomo maturava la scelta disperata di abbandonare la sua patria, corresponsabili di quel dramma erano tutte quelle parti che lo avevano messo nelle condizioni di dover ricorrere a quell’extrema ratio: dai datori di lavoro che affamavano i dipendenti, fino allo Stato che non agiva con sufficiente incisività per cercare di ridurre in ogni modo la disoccupazione. Per citare una frase del futuro santo, ai cittadini deve essere data la «libertà di emigrare, ma non di far emigrare».
Certo è che, nell’immediato, non bastano i discorsi per risolvere i problemi che già esistono; e infatti, Scalabrini passò all’azione per aiutare tutti quegli Italiani che, volenti o nolenti, si trovavano comunque a dover vivere la vita del migrante. Nel 1887 fondò l’istituto religioso dei Missionari di San Carlo, «una Congregazione di Missionari per le Colonie italiane specialmente in America» animata da un duplice scopo: «mantenere viva nel cuore dei nostri connazionali emigrati la fede cattolica», ma anche aiutarli a conseguire «benessere morale, civile ed economico» nella loro nuova casa.
Che gli immigrati si trovassero spesso a vivere in condizioni di indigenza, è cosa tristemente e dolorosamente nota. Ma il vescovo vedeva nella condizione di migrante anche dei pericoli di natura morale, che i sacerdoti avrebbero dovuto affrontare con apposita pastorale. Innanzi tutto, si trattata di cercare un modo per proteggere i legami di affetto di quelle famiglie che si trovavano a vivere agli opposti capi di un oceano; ma non solo. In base all’esperienza di Scalabrini, gli immigrati che parlavano a stento la lingua del nuovo Paese facevano molta fatica a curare la loro educazione religiosa, se si appoggiavano alle “normali” parrocchie di quartiere, gestite da preti di buona volontà che però avevano il difetto di non essere poliglotti (e, spesso, di non essere stati formati sul miglior modo di rispondere ai bisogni molto specifici di quel particolare gruppo di fedeli).
Ecco dunque la necessità di fondare un istituto di padri missionari che fossero specificamente preparati per questo difficile compito. Nella visione di Scalabrini, il sacerdote al servizio dei migranti aveva un ruolo multi-sfaccettato: era al tempo stesso evangelizzatore, assistente sociale, agente di lavoro, guida cittadina e operatore sanitario d’emergenza. Padre Scalabrini, infatti, riteneva impossibile svolgere iniziative concrete a favore dei migranti senza una visione ad ampio respiro, che riguardasse ogni sfera della società.
Proprio per questo, fondò la St. Raphael Society for the Protection of Italian Immigrants, un’associazione laicale aperta a tutti quei giuristi che, a titolo gratuito, fossero stati disposti a offrire assistenza ai migranti, prima, durante, e dopo il loro viaggio. Più volte sollecitò l’intervento della Congregazione di Propaganda Fide per coordinare un’azione pastorale condivisa tra le diocesi da e per cui si verificavano i più massicci fenomeni di migrazione. Non si turbò neppure alla prospettiva di far sentire la sua opinione riguardo a temi di natura politica, lodando quelle leggi a tutela dei migranti che giudicava valide e criticando le iniziative che riteneva troppo deboli.
Ma come aiutare, concretamente, un immigrato?
Per quanto lo riguardava direttamente: ai suoi missionari, padre Scalabrini non concesse margini di lassismo. Li volle attivi sempre e in ogni momento: sui piroscafi, se possibile, per stringere fin da subito un legame coi migranti; nei porti d’arrivo, in ogni caso, per dare il benvenuto e per aiutare i nuovi arrivati ad ambientarsi in un mondo frenetico e disorientante. Domandò ai suoi sacerdoti di mostrare una particolare cura per le famiglie che erano appena arrivate, accogliendole in strutture pastorali apposite che servivano a confortare, indirizzare, istruire, consigliare. In una parola: inserire nella società.
Ma raccomandò ai missionari di restare vicini anche a quei migranti di vecchia data che erano già ben integrati e che, almeno all’apparenza, non avrebbero più avuto bisogno di particolare aiuto. Ma, secondo padre Scalabrini, era importante che l’integrazione nel nuovo territorio non equivalesse all’abbandono della propria identità culturale: un salutare attaccamento alle tradizioni della propria patria era anzi da incoraggiare e da promuovere, attraverso le mille iniziative pastorali che potevano essere intraprese per tener vive le tradizioni del paesello natio.
Nei suoi scritti, Scalabrini fece spesso ricorso alla metafora incisiva del giardinaggio.
Se è proprio necessario, trapiantare un albero è certamente possibile; ma bisogna farlo con cura, riflettendo bene e usando le dovute cautele. Nessun giardiniere sradicherebbe un albero in quattro e quattr’otto, per poi abbandonarlo al suo destino, dopo averlo infilato in malo modo in una buca scavata a chilometri di distanza, in un terreno completamente diverso da quello in cui la pianta era cresciuta. Il giardiniere avveduto procede con cautela, conserva attorno alle radici quel po’ di terriccio che aiuterà l’albero ad adattarsi piano piano al nuovo habitat, e ha comunque cura di controllare per qualche tempo che il trapianto stia procedendo bene, pronto a cogliere i primi segni di fenomeni di rigetto e a intervenire là dove possibile.
Bisognerebbe usare le stesse cure anche nel momento in cui si trapianta un uomo, osservò incisivamente Scalabrini. E, se tutti così facessero, si sarebbe già a metà dell’opera.