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Le preghiere di Aleteia ti sembrano delle formule magiche? Qui le nostre risposte

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 30/09/22
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Alcune domande comuni (e altre meno comuni) sulla vita dello spirito: se sia possibile, a quali condizioni proceda e a che fine punti.

«Dio, se esisti, fa’ che ti conosca», pregava Charles de Foucauld – e lo sappiamo perché il grande sancyrano ed eremita scrisse ad Henry de Castries raccontandogli questa sua preghiera. Anche Madeleine Delbrêl e tanti santi ragionavano della possibilità di invocare Dio, come se non fosse già nel posto dove lo si invoca – la propria anima –, e tutti scoprivano invariabilmente che erano loro stessi a non essere in quel posto, laddove la preghiera ce li riportava. 

Tutti (o molti) pregano, ma nessuno (o quasi) sa farlo

Si tratta di un tema eminentemente agostiniano (almeno il primo dei dodici libri delle Confessioni è dedicato principalmente alla questione), ma non esclusivamente cristiano: poco prima del grande Dottore africano, il neoplatonico Plotino prendeva le distanze dalla pratica teurgica (l’arte pagana di coinvolgere la divinità nelle proprie cose mediante l’uso di parole umane), mentre altri filosofi, anche della medesima scuola (si pensi pure al solo Proclo), sarebbero stati assidui praticanti di quell’attività. 

Non a caso Gesù, introducendo alla propria arte della preghiera, disse: «Non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole» (Mt 6,7). Eppure non stava parlando a dei pagani, ma a degli ebrei, tanto è vero che la prima indicazione è stata: «Quando pregate, non siate come gli ipocriti, che amano pregare stando in piedi nelle sinagoghe» (Mt 6,5). Ritti nelle sinagoghe non stavano certo Plotino e Proclo… 

La preghiera ha questo di veramente notevole: tutti (o molti) la praticano ma nessuno (o quasi) è sicuro di star pregando bene. Non a caso Luca, che incorpora il racconto di come i discepoli appresero la preghiera di Gesù (sicuramente il maestro non la insegnò una volta sola), narra di 

Erano tutti pii israeliti, al punto da poter essere definiti seguaci del Nazareno (insomma, erano decisamente impegnati), e sicuramente pregavano come la Toràh raccomandava (almeno lo shemà tre volte al giorno), però chiesero a Gesù di insegnare loro a pregare. Anzi il testo accenna al fatto che anche i discepoli del Battista chiedevano a quest’ultimo di fare altrettanto. 

È facile comprenderne la ragione: quando uno prega, ed è distratto o si sente arido o vuoto o vede che né la sua vita né lui pare avvertire il minimo cambiamento, comincia a nutrire il sospetto che 

    Se poi, a fronte di questo (spesso inconfessato) presentimento, ci si imbatte in persone che ardono di un fuoco sconosciuto ma evidente, al punto che vivono nel deserto eppure attraggono folle, oppure passano notti in preghiera e al mattino sono“freschi come rose”, e anzi che scoppiano di luce, al punto da arringare folle, moltiplicare pani e pesci, camminare sull’acqua e cose così… il povero e confuso apprendista orante depenna la prima ipotesi. Il che è alla fin fine una notizia per metà buona («non è vero che la vita spirituale non esiste») e per metà cattiva («sono io che non so pregare»). 

    Se c’è il Padre Nostro, perché usare altre parole?

    E Gesù dice di “non sprecare parole”, prima di consegnare alla storia una manciata di frasi che non arriva alla decina – giunteci per giunta in due versioni, di modo che non possiamo assolutizzare neppure quelle. Ma come? E lo shemà? E i cantici di cui la Scrittura è tempestata? E i Salmi (che sono 150 senza contare quelli spurî!)? Tutte parole al vento, da soppiantare con il solo Padre Nostro? Doveva essere una delle domande che ad Agostino, ormai più vicino ai sessanta che ai cinquanta, la devota Proba pose, dal momento che il Vescovo di Ippona le rispose: 

    Ben vengano dunque le preghiere vocali, che eccitano il cuore e lo spronano a ridestare l’attenzione dello spirito al Cielo. Ben venga il Rosario, che di un florilegio scritturistico (sia il Pater sia l’Ave vengono massimamente dai Vangeli) fanno la spirale destinata a farci scendere sempre più a fondo nel mistero di Cristo. Ben vengano le orazioni di Santa Brigida, la Coroncina della Divina Misericordia, le millemila Novene composte da santi fatti e finiti o da santi in costruzione: sono tutti strumenti suscettibili di farci fare molti passi avanti, nella vita spirituale e nell’esperienza dell’orazione. 

    BALAKLYIA

    La preghiera come un’escursione sul monte infinito dello Spirito

    Si tenga però conto che il punto d’approdo di tutto questo, la meta della stessa esistenza teologale, è l’immersione nella vita intratrinitaria, che al momento comprendiamo come un eterno Silenzio, un’immensa e unica Parola e un Abbraccio che tutto e tutti raccoglie in unità. Ecco perché le parole di san Francesco che si conservano scolpite nel pavimento dell’eremo a La Verna, il «crudo sasso infra Tevere ed Arno» dove «da Cristo prese l’ultimo sigillo» (Pd XI,106-107), sono le lapidarie “Deus meus et omnia” – “mio Dio, mio tutto”. Come quando si fa un’escursione in montagna: si fatica, si suda, ci si ferma, si ragiona sui sentieri, si fanno cordate e ci si dice tante cose… ma quando si è in vetta il panorama (letteralmente, il “vedere-tutto”) mozza il fiato e impone il silenzio. Al massimo uno bisbiglia “uao, che bello”, e subito tace perché sente di aver detto troppo, di aver tolto qualcosa alla rivelazione che gli si para innanzi. Ecco, così, anzi molto, infinitamente di più, eternamente oltre, sarà il panorama paradisiaco, al quale già in questa vita si avvicinano come possono quanti sono progrediti particolarmente nella vita spirituale. 

    Per questo anche papa Francesco, ieri mattina (28 settembre 2022), diceva in udienza che la «preghiera vera è familiarità e confidenza con Dio. Non è recitare preghiere come un pappagallo, bla bla bla, no. La vera preghiera è questa spontaneità e affetto con il Signore»: 

    La preghiera non è magia, non è teurgia, non “costringe Dio” a fare alcunché, né opera magicamente su di noi: ci fa invece entrare in un dialogo che Dio stesso – il Dio vivo e vero – e solo Dio ha potuto e voluto, liberamente, avviare con noi. Questo dialogo comincia dal nostro linguaggio – le parole umane di cui tutta la Rivelazione è impastata – e gradualmente tracima, trasfigurandosi, in quello divino – un’unica eterna Parola amante, eternamente nata da un Silenzio amante e ad essa annodata in un eterno Abbraccio. Deus meus et omnia

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