Un processo, un cantiere di speranza e un laboratorio di pace. Così si può declinare Economy of Francesco, l'evento voluto dal Papa che in questa terza edizione, la prima in presenza, ha portato ad Assisi circa 1000 giovani economisti e imprenditori provenienti da 120 Paesi. Il tema della pace, in particolare, è stato al centro di vari incontri e dibattiti. Martina Pignatti, direttrice dei programmi di cooperazione della Ong “Un Ponte Per” sottolinea che "l'economia capitalista sta finanziando moltissimo l’industria militare e coloro che traggono profitto dalla guerra".
Ad Assisi uno dei temi cruciali al centro di tavole rotonde e incontri è quello della pace. Come si può coniugare il tema della pace con una nuova visione dell’economia?
Ne parlavo con dei giovani economisti sudamericani e convenivamo sul fatto che la guerra è il risultato di un fallimento nel coordinamento anche degli attori: si pensa che gli attori economici dovrebbero pensare a quello che risulta conveniente per loro. Spesso cooperare, fidandosi gli uni degli altri, è il modo migliore per fare il proprio interesse personale. Quando non c’è l’intuizione che la nostra interdipendenza e la nostra fiducia reciproca possono promuovere il nostro interesse, allora scoppiano i conflitti. E purtroppo l’economia capitalista, in questo momento, sta finanziando moltissimo l’industria militare e coloro che traggono profitto proprio dalla guerra. E che quindi sottraggono risorse alle spese sociali e a tutto quello che potrebbe aiutarci a salvare noi stessi e il pianeta.
Tante volte Papa Francesco ha denunciato le sproporzioni della spesa militare…
Noi abbiamo proposto degli esempi molto pratici in questo caso: a luglio ero a Kiev, in Ucraina, a parlare con insegnanti, istituti per la pace e centri giovanili che lavorano sulla coesione sociale nel Paese. Un impegno per il dialogo e la comprensione tra chi parla russo e chi parla ucraino per far in modo che il tessuto sociale ucraino non venga smembrato dalla guerra. E che si mantenga uno spazio per gli obiettori di coscienza, uno spazio per la diversità, per la coesione sociale tra comunità ospitanti e sfollati interni. Questo non lo finanzia nessuno. Oltre ai miliardi spesi in armamenti e i milioni, troppo pochi, investiti in aiuti umanitari non ci sono fondi per chi è impegnato in un lavoro di pace. D’altra parte, neanche i pacifisti russi che stanno manifestando nelle strade e che vengono incarcerati, ricevono particolare sostegno dalla comunità internazionale. Per loro si deve costruire una economia di pace che costruisca relazioni diverse tra i popoli. E che aiutino i popoli a calcolare i sogni di pace, i ritorni anche economici dal lavoro di pace. Credo che per questo sia molto importante oggi riflettere sulle relazioni tra guerre e peace building.
A proposito di sogni di pace, c’è una storia di speranza in particolare che riecheggia anche qui ad Assisi?
Abbiamo parlato, nelle sessioni iniziali, molto di Iraq. Una ragazza irachena, Fatima, ci ha raccontato la sua esperienza. Quello che abbiamo visto in un Paese come questo - dove si sente parlare solo di conflitto armato e di milizie - è che quando diamo a persone che sono state vittime di una ideologia profondamente violenta, nel momento in cui vedono una alternativa e vengono invitate ad una iniziativa di pace, riescono a condividere ad esempio un pasto con persone di etnie diverse, in pochissimo tempo possono cambiare la loro visione del mondo. Abbiamo visto che programmi di peace building, nelle zone appena liberate dalla presenza del cosiddetto stato islamico, cambiano la prospettiva e la visione di queste persone. Ovviamente, succede molto più facilmente con i giovani. Bisogna avere fiducia sul fatto che promuovere processi di pace dal basso, in queste comunità, può portare anche una trasformazione politica di alto livello. Ricordiamoci che questo movimento per la pace è riuscito a convincere l’assemblea generale dell’Onu ad approvare un Trattato per l’abolizione delle armi nucleari. Quindi i popoli possono guidare le nazioni nella costruzione della pace. Dobbiamo continuare a crederci.