Che fate a Capodanno?
Se vivessimo a Parigi negli anni della Rivoluzione, saremmo probabilmente alquanto contrariati ma la domanda di cui sopra non cadrebbe nel vuoto: nella repubblica dei sanculotti, l’anno iniziava il 22 di settembre (ma eventualmente anche dopo, non si capiva bene: per sicurezza, bisognava chiedere di volta in volta agli scienziati).
Forse, nelle nostre reminiscenze scolastiche, si affacciano ancora i nomi dal sapore arcadico con cui, durante gli anni della rivoluzione, erano stati ribattezzati i mesi dell’anno: Ventoso, Pratile, Brumaio, Piovoso…. Termini evocativi, non c’è che dire; ma sarebbe sbagliato ridurli a mero divertissement per intellettuali del passato: dietro alla riforma del calendario esisteva un progetto ideologico ben preciso.
A spiegarlo chiaro e tondo, nel 1793, fu il politico Gilbert Romme. La riforma del calendario prendeva le mosse dalla volontà di lasciarsi alle spalle «l’era volgare: era della crudeltà, della menzogna, della perfidia, della schiavitù». Quell’epoca, a suo dire, era tramontata grazie alla rivoluzione; diventava dunque opportuno che «la Francia rigenerata» si dotasse di un nuovo metodo di calcolo del tempo, scevro da tutte le incrostazioni provenienti da un passato buio e irrazionale.
All’atto pratico, è chiaro che Romme avesse l’urgenza di liberarsi di un tipo assai specifico di incrostazioni: quelle che collegavano il calendario civile e il calendario liturgico. Per esempio, il fatto che le settimane fossero scandite dall’avvicendarsi delle domeniche era un pensiero che gli dava l’orticaria: perché uno Stato laico dovrebbe piegarsi ai ritmi che vengono dettati da un’organizzazione religiosa? O ancora: l’idea che le feste patronali avessero il potere di stravolgere la normale vita lavorativa era un qualcosa che lo annichiliva – si trattava di retaggi medievali senza senso, di cui uno Stato moderno avrebbe fatto bene a sbarazzarsi!
E così, a partire dal 1789, i politici della Francia rivoluzionaria si misero al lavoro per predisporre una riforma del calendario. L’iniziativa fu coordinata dal Comitato d’Istruzione Pubblica e si avvalse della collaborazione di professionisti di tutto rispetto: Lalande, direttore dell’Osservatorio Astronomico di Parigi; Lagrange, famoso per i suoi studi sulla meccanica celeste; Fabre d'Églantine, letterato stimatissimo, che si occupò di creare i nomi per i mesi “rivoluzionari”.
Naturalmente, il nuovo calendario non poteva che allinearsi a quelle leggi universali, e indagabili scientificamente, che regolano l’avvicendarsi del tempo: con questa logica, si decise innanzi tutto che l’anno rivoluzionario sarebbe iniziato con l’autunno. O, per meglio dire: il primo giorno dell’anno sarebbe scattato alla mezzanotte di quella data che l’Osservatorio Astronomico di Parigi avrebbe indicato come equinozio d’autunno.
Una definizione arzigogolata, ma necessaria: come è noto, l’equinozio non cade sempre nello stesso giorno. Il momento esatto in cui il Sole si trova allo zenit dell’equatore può variare leggermente di anno in anno, in virtù del moto di rivoluzione terrestre: nel 2022, per esempio, l’equinozio d’autunno avrà luogo alle 01:04 del 23 settembre, ma nel 2021 s’era verificato nella tarda serata del giorno precedente.
Insomma: presi dalla smania di ancorarsi alla scienza, i politici della Rivoluzione si inventarono un calendario in cui il Capodanno era una festa mobile (!) che poteva cadere alternativamente il 22, il 23 o il 24 di settembre. Verrebbe la tentazione di commentare che solo una persona poco lucida potrebbe ritenere praticabile una riforma del calendario in cui non si capisce bene in che giorno inizi l’anno; ma i politici della Rivoluzione non si turbavano per così poco, sicché tennero buono questo punto fermo e iniziarono a lavorare alacremente per mettere a punto anche tutti gli altri dettagli.
In primo luogo, fecero sparire ogni riferimento alla religione.
Non furono solamente le grandi solennità cristiane a esser cancellate con un colpo di penna: sparirono anche i riferimenti alle ricorrenze mariane, alle memorie di santi, alle feste patronali e a tutte quelle consuetudini popolari che avevano un legame solamente labile col calendario liturgico (per esempio, l’usanza di far scadere i contratti agrari in concomitanza con le feste di san Martino o san Michele).
Eliminato ogni riferimento alla devozione, il calendario volle mettere subito in chiaro quali fossero i cardini attorno a cui avrebbe dovuto ruotare la vita operosa della brava gente: la pietra fondante della nuova società diventava l’onesto lavoro dei cittadini, che permette alla nazione di crescere e prosperare. Questo aspetto è evidente nella scelta dei nomi che furono dati ai nuovi mesi, ribattezzati con termini che evocavano poeticamente il ciclo delle stagioni e il lavoro nei campi:
Vendemmiaio (indicativamente dal 22 settembre al 21 ottobre)
Brumaio (indicativamente dal 22 ottobre al 20 novembre)
Frimaio (indicativamente dal 21 novembre al 20 dicembre)
Nevoso (indicativamente da 21 dicembre al 19 gennaio)
Piovoso (indicativamente dal 20 gennaio al 18 febbraio)
Ventoso (indicativamente dal 19 febbraio al 20 marzo)
Germinale (indicativamente dal 21 marzo al 19 aprile)
Fiorile (indicativamente dal 20 aprile al 19 maggio)
Pratile (indicativamente dal 20 maggio al 18 giugno)
Messidoro (indicativamente dal 19 giugno al 18 luglio)
Termidoro (indicativamente dal 19 luglio al 17 agosto)
Fruttidoro (indicativamente dal 18 agosto al 16 settembre)
I dodici mesi furono suddivisi in tre gruppi di dieci giorni l’uno, a sostituzione delle vecchie settimane; ognuno di questi gruppi si concludeva con il decadì, la giornata dedicata al riposo festivo. E festivi erano pure i cinque giorni che precedevano il Capodanno, chiamati sanculottidi e dedicati alla commemorazione semi-sacra dei valori su cui si fondava la rivoluzione (virtù, genio, lavoro, opinioni e ricompense).
Prevedibilmente: fu un fallimento su tutta la linea. Il calendario rivoluzionario entrò in vigore nel 1793, ma assolutamente non riuscì a farsi accettare dalla popolazione.
I comuni cittadini sembravano incapaci di farsi entrare in testa un sistema così astruso (che, oltretutto, cambiava di anno in anno, sulla base di diktat dettati da un osservatorio astronomico). I funzionari statali, nonostante gli sforzi, non avevano molta più dimestichezza; globalmente, l’unica cosa che era chiara a tutti era il dettaglio per cui, col nuovo calendario, le settimane erano più lunghe, si lavorava di più e ci si riposava di meno. Non esattamente il miglior biglietto da visita per una riforma, che infatti Napoleone abolì nel 1805 ripristinando il calendario di sempre.
Nel suo saggio dedicato a dedicato a I giorni del sacro. I riti e le feste del calendario dall’antichità a oggi, il medievista Franco Cardini osserva tranchant «il sistema era caduto nella noia e nel ridicolo universali, aveva prodotto battute di spirito ma anche confusioni a non finire». Ma soprattutto «non era mai entrato nel circolo vitale delle abitudini del popolo francese, il quale aveva continuato a festeggiare l’arcangelo Michele il 29 settembre e san Martino l’11 novembre, a mietere tra giugno e luglio e a vendemmiare fra settembre e ottobre, alla faccia di tutti i messidoro e i vendemmiai impostigli dalla Repubblica».
Verrebbe da commentare che le “radici cristiane d’Europa” sono più profonde di quanto pensi qualcheduno, e così estese da aver plasmato attraverso i secoli le usanze, la quotidianità e il calendario di un intero continente (anzi: più d’uno!). Difficile, estirpare queste fondamenta tutto d’un colpo, persino quando si tenta di farlo a norma di legge; e la Francia della Rivoluzione dovette infine accorgersene, a sue spese.