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Quando muore un uomo buono ma non credente

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 17/09/22
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Quando muore un pagano (un pagano buono e un buon pagano) il suo transito pone ai credenti domande scomode ma inaggirabili. Proviamo a descriverne alcune.

Quando morì Piero Angela volemmo condividere sui nostri social network la vignetta che Emilio Giannelli pubblicò sul Corriere della Sera: vi si raffigurava il trapassato davanti a san Pietro e a tre angeli in forma di puttini. Angela esclamava: «Un vero peccato che non abbia portato la cinepresa; sarebbe stata una straordinaria puntata di SuperQuark!». E, risemantizzando felicemente il sottotitolo della celeberrima trasmissione di Angela, Giannelli intitolava la vignetta “Il piacere della scoperta”. 

Come quando Margherita Hack scrisse, in un libro di quasi vent’anni fa: 

Se la scoperta è un piacere in generale – la scoperta in senso filosofico-scientifico, dunque la scoperta dell’essere, del vero, del bello e del buono (non delle loro accidentali mancanze) –, quella scoperta – la scoperta di essere attesi e amati dall’eternità e per l’eternità – è indubbiamente il piacere più grande, il più alto a cui una creatura possa aspirare. Anzi esso resta per sempre al di là di ogni possibilità raffigurativa. 

Il vignettista senese salutava quindi il divulgatore torinese con l’augurio più alto e tenue che si possa fare a ogni persona: «che ’l sommo piacer gli si dispieghi» (Pd XXXIII,33). Lo ha fatto anche attingendo alla semiotica del culto cattolico (san Pietro con le chiavi, gli angeli…), quantunque Angela non abbia mai fatto professione di fede (né cattolica in particolare né religiosa in generale). 

Quest’ultimo punto ha probabilmente causato (ma non giustifica affatto) una limacciosa ondata di commenti malevoli (insieme ad altri assai più cristianamente ispirati) al post con la vignetta: 

Per lui che era ateo, raffigurarlo in mezzo alle nuvolette fra angeli con ali e aureole, più che un omaggio mi sembra una presa in giro. 

    E come si vede alcune di queste osservazioni non mancano di fondamenti, anche scritturistici (il che di per sé non è probante: anche per tentare Cristo il demonio citò le Scritture…). 

    D’altro canto pure alcuni commenti di segno opposto lasciano perplessi quanto ad aderenza alla dottrina cattolica: 

      Se d’altro canto fosse bastato seguire la coscienza per essere “credenti”, ossia per vivere nel dono teologale della fede, «mestier non era parturir Maria», con le parole del Poeta. 

      In mezzo a questi estremi una posizione non priva di variegate rappresentanze: 

        Ci si può convertire in extremis 

        Raccogliamo questi commenti per ragionarne insieme con i nostri lettori, non perché ci sia qualcosa di nuovo da dire in materia: fu Cristo in croce, all’apice del suo più sublime magistero, ad indicare con la vicenda del “buon ladrone” che basta davvero un estremo istante a guadagnare l’eternità felice.

        Nella Commedia Dante tornò più volte a narrare simili episodî, soprattutto (ma non solo) nel Purgatorio. Si ricordi Manfredi, nel canto III: 

        O Buonconte, che nel V raccontò della propria fine a margine della battaglia di Campaldino: 

        “Mi rendei, / piangendo, a quei che volontier perdona”. “Nel nome di Maria”. “Una lagrimetta”. Tanto basta, a conseguire il premio eterno, e questo è intollerabile non solo per i demonî, ma pure per alcuni credenti – la “fede dei demonî” non è una prerogativa angelica –, come Cristo stesso anticipò nella chiusa della parabola dei vignaioli: 

        Dio “non fa torto”, ma la sua bontà è insostenibile anche per i “buoni”, che infatti vengono detti “in-vidiosi”, cioè incapaci di vedere. Cosa? Probabilmente il fatto che il lavoratore dell’ultima ora ha guadagnato sì la stessa ricompensa promessa a quelli della prima… però ha perso la propria giornata («ve ne state qui tutto il giorno oziosi» Mt 20,6). E di chi è colpa che quelli abbiano perso la giornata, cioè che abbiano vissuto la loro esistenza al di sotto delle proprie potenzialità? Non loro, a quando affermano: «Nessuno ci ha presi a giornata» (Mt 20,7). Non ci sarebbe stata vocazione, dicono: nessuno li ha chiamati. E il vignaiolo non ribatte puntualizzando: «Un momento, io sono già passato altre tre volte da stamattina: voi dov’eravate?». Dice soltanto: «Andate anche voi nella mia vigna» (ibid.), senza neppure aggiungere una parola precisa sul compenso («…quello che è giusto ve lo darò»). E quelli neanche chiedono: «Male che vada – avranno potuto pensare – ci farà riportare qualche grappolo d’uva a casa e almeno non andremo a dormire digiuni». 

        Poi invece arriva la sorpresa, il piacere della scoperta, e si rende manifesto che la scoperta non fa piacere proprio a tutti. Perché? Il testo lascia come risposta una domanda: «Forse sei invidioso perché io sono buono?». Perché la bontà ha questo, nel proprio fenomeno: come la bellezza, essa corrisponde a un radicale senso di giustizia… eppure è anche “graziosa” in modo soverchiante, nel senso che nessuno può rivendicare di aver diritto al benché minimo atto di gentilezza o di bontà. Figuriamoci se si possa rivendicare un diritto al dono teologale della fede! Perché dunque invidiare chi quel dono l’abbia ricevuto in extremis? Perché non rallegrarsi della bontà del padrone (il quale in definitiva nella propria vigna potrebbe chiamare o non chiamare a proprio gusto), e non considerarsi ancora più fortunati ad essere stati coinvolti perfino più lungamente negli affari di tanto magnanimo signore? 

        Le parole di Manfredi e di Bonconte vengono spesso ricordate, ma di rado si accenna che il luogo in cui quelle anime si trovano non è (nell’immaginario dantesco) il purgatorio vero e proprio, bensì l’antipurgatorio, ovvero precisamente lo stato riservato ai “vignaioli dell’ultima ora”, cioè a quanti si convertono in punto di morte. Lo spiega bene il pigro Belacqua: 

        Non è, questa di Dante, la ripicca di un lavoratore della prima ora contro un collega dell’ultima, bensì la matura considerazione che – pur se ha la vita salvata – quell’esistenza si è persa, si è sciupata. Onde la giustizia divina esige (ma soprattutto dispone e offre) che quella persona, già salvata e «certa di vedere l’alto lume», possa “rivivere la propria giornata terrena”, ovvero il suo tempo (qualsiasi cosa esso sia e significhi dopo il giudizio individuale e prima di quello universale), nella consapevolezza e nell’autenticità. Ciò comporta sospiri, cioè rammarico e penitenza, ma “buon sospiri”, perché effetto della chiamata data e finalmente ricevuta e accolta, nonché concausa della propria crescente felicità. 

        E per quando non sappiamo di conversioni, neanche in extremis

        Tutto questo non causa problemi sostanziali, ai credenti, o perlomeno ne causa pochi – quelli già predetti da Gesù, dunque in qualche modo “preventivati”. Il fatto che risulta particolarmente indigesto è che, nel caso di specie, non è trapelata alcuna notizia su una “conversione” di Piero Angela, e che si sia insistito nel parlare di “funerali laici” e di un difficilmente precisabile “continuare a vivere nella memoria dei posteri e nell’emulazione dei giovani”. Se però quella notizia fosse trapelata, immediatamente da parte cattolica si sarebbero levati squilli di tromba ad accogliere “il salutare, benché tardivo, ingresso di Piero nelle file dell’esercito della salvezza (cioè nel nostro partito)”. C’è di che essere grati alla Provvidenza, davvero, per averci risparmiato un simile spettacolo, particolarmente inadeguato a una cosa grave e seria come la morte di una persona. 

        La storia è piena di persone che in punto di morte chiamano il prete e si adoperano perché nessuno lo sappia: interpretando malamente l’approccio a Gesù di Nicodemo o la teoria della scommessa di Pascal, o chissà per qualche altra ragione, anche tanti positivisti e perfino comunisti mangiapreti hanno chiesto il viatico sacramentale e hanno pregato che la cosa non si sapesse in giro. Però non è questo il caso: Piero Angela non è morto da ateo arrabbiato, da anticlericale, da anticristiano o con altri sentimenti. Il suo “eccesso” (i latini usavano anche questa parola per dire l’uscita di scena di qualcuno) sembra piuttosto essere avvenuto – per quanto è stato dato di vedere e di sapere – come quello di un buon pagano dei tempi antichi. 

        Quando un pagano – un buon pagano e un pagano buono – muore (e muore bene), il suo transito (ignoto se non anonimo) è un grande spettacolo per tutti. Anche per i credenti (e perfino per i cristiani). Per questi, in particolare, esso apre una domanda scomoda ma ineludibile: se professiamo che solo Cristo vince la morte, e che solo questa fede può placare l’angoscia dell’uomo per il proprio destino, come mai vediamo persone che non professano questa fede e che pure abbiamo visto sulla soglia della “fatal quiete” in pacifica compostezza? 

        Quel che ha stupito molto, nel caso di Angela (ma lo prendiamo a caso paradigmatico, non pretendiamo certo di disputare del suo destino), è stato che il divulgatore, uomo dal multiforme ingegno, abbia voluto impiegare gli ultimi tempi della sua lunga vita a concludere dei lavori (giornalistici, artistici, scientifici…) che si proponeva di fare. A che pro continuare a confezionare puntate di trasmissioni, dischi di jazz, sculture e quant’altro, se di qui a poco tempo di me non resterà che il ricordo, via via necessariamente più tenue tra le umane genti? A che serve se io – proprio io, personalmente – non ho altro da sperare per me? Questa domanda sembrò non impensierire Angela, uomo magnanimo, per il quale l’esistenza era una possibilità straordinaria (alcuni amano parlare di “miracolo quantistico”) che andava compiuta fino al suo ultimo evento, che è evidentemente la morte. 

        E però un’altra domanda resta aperta, anche davanti a uomini non personalmente attaccate al proprio destino ultraterreno – vale appena la pena di ricordare che buona parte dei santi ricordati nell’Antico Testamento morì senza sperare in una vita dopo la morte… –: ogni volta che facciamo musica, ogni volta che usiamo un’espressione artistica o che studiamo; quando facciamo ricerca o traduciamo da una lingua all’altra, o da e per linguaggi metalinguistici… noi affermiamo implicitamente, perché ne facciamo uso, la sussistenza di una solida coerenza metafisica del mondo. Noi affermiamo cioè che il mondo non è caos, bensì kosmos, ossia ordine. Molti pagani si risolsero ad ammettere che il mondo potesse anche definirsi, per questo, universo, ossia “rivolto all’uno” (perché proveniente dall’Uno). La celebrazione dell’Ordine del mondo, insomma, invoca insistentemente e ineludibilmente una domanda sull’Agente (o sulla Causa efficiente) di quell’ordine – il che porta invariabilmente ad affermazioni (o meglio a domande) come quella di Margherita Hack riportata in apertura. 

        Sono domande, come si vede, e restano destinate a permanere aperte per tutti: per i pagani, perché ogni affermazione di senso nel mondo (e lo studio delle scienze e delle arti ne è fra le maggiori) rimanda oltre («perché tutte le immagini – poetò il non-cristiano Montale – portano scritto “più in là”»); per i cristiani, perché ogni vita che scorra bene (pur nei limiti dell’umana fragilità) li interpella su quali invisibili canali di grazia possano arrivare a irrigarla così efficacemente. 

        Da questo paradosso i Padri della Chiesa erano tormentati, perché anche ai loro tempi c’erano tanti cristiani tiepidi e non pochi pagani ammirevoli: si fa presto a dire che le virtù dei pagani sono “splendidi vizî” (ovviamente lo disse Agostino), ma quelle vite non smettono di causare stupore e porre domande. Ancora dal profondo medioevo che già vedeva l’alba della modernità, Dante inserì nella Commedia più di un personaggio (nessuno dei quali marginale) atto a stressare quel paradosso e farlo parlare il più possibile: lasciamo perdere Stazio e la tradizione della sua conversione (che però serve a caricare ancora di più il dramma di Virgilio, cui l’autore della Tebaide disse di dovere sia il proprio essere poeta sia il proprio essere cristiano [Pg XXII,73]!), ma che dire di Traiano (addirittura in Paradiso [Pd XX]), di Catone l’Uticense (guardiano del Purgatorio [Pg I], pagano e suicida!), e di tutti i personaggi richiamati da (e riassunti in) Virgilio? 

        Del resto, in quale punto della Commedia Dante descrive l’atteso (e crudelissimo) congedo da Virgilio, che dopo averlo aiutato ad attraversare l’Inferno e a scalare il Purgatorio se ne dovrebbe tornare nel limbo? Lucia, dagli occhi belli, non gli aveva promesso niente, e un magnanimo come quel bravo pagano non avrebbe chiesto nulla in cambio della cortesia impetratagli dalla santa… eppure nel quadro stesso della Commedia c’è questo grande benché discreto paradosso: le “tre donne” (una delle quali è la Madre di Dio – nientemeno) dispongono che a mediare a Dante la grazia della conversione sia il pagano Virgilio. Il Mantovano corrisponde senz’altro alla richiesta celeste… e per tutto il viaggio nell’oltretomba il lettore già pregusta il momento straziante in cui, come (e all’inverso di) Euridice, Virgilio dovrà lasciar proseguire Dante da solo e di nuovo sprofonderà nel limbo. Solo che… quel momento non arriva mai. Virgilio non si accomiata mai da Dante, e la scena permetterebbe ben di immaginare che, giunto al culmine del Purgatorio, l'autore dell'Eneide venga ammesso all'agognata visione di Dio.

        Dante non dice, cioè non risponde e sceglie di stare, anche lui, davanti alla domanda aperta sul destino dei buoni pagani. Resta fermo – vale per lui, per noi e per tutti – il «compito imprescindibile […] e il sacrosanto diritto di diffondere il Vangelo» (Concilio Vaticano II, Ad gentes, 7); ma pareva anche aver intravisto, Dante, che «Dio, attraverso vie che lui solo conosce, possa portare gli uomini che senza loro colpa ignorano il Vangelo a quella fede “senza la quale è impossibile piacergli”» (ibid.). 

        Mai dovremmo ritenerci dispensati dal contemplare questa verità di fede (che supera la ragione e singolarmente la conferma).

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