Figlia maggiore di una coppia della classe media di Magaste, Monica (nata nel 331) è stata tirata su con una certa ruvidità da una vecchia serva cristiana che giudicava utile mortificare i sensi dei bambini. Per esempio proibendo loro di bere anche solo un bicchier d’acqua fuori dai pasti.
Ma fa caldo, d’estate, in Numidia (l’attuale Algeria), e questa privazione era pesante per la piccola e per le sue sorelle. Per giustificarla, l’educatrice spartana diceva:
Insomma, la vecchia pensava di premunirle contro l’alcoolismo mondano e solitario delle donne sposate male che si annoiavano in casa.
La chiave della cantina
Quel che accadde fu proprio il contrario. L’episodio ci è riportato dal figlio Agostino, nelle Confessioni (IX,8). Monica aveva circa quindici anni, venne il giorno in cui l’anziana serva morì e fu rimpiazzata da una domestica coetanea della giovane padrona, con la quale per gelosia s’intese immediatamente molto male. Di bisticcio in bisticcio – anche perché, essendo Monica libera e l’altra serva, la padrona aveva sempre l’ultima parola – l’odio della seconda non cessava di crescere. L’altra se ne rendeva conto e diffidava di quella.
Più o meno in quel periodo, come segno di fiducia, i genitori affidarono a Monica la chiave della cantina e la incaricarono di andare ogni giorno a prendervi il vino per i pasti della famiglia. In capo a qualche giorno Monica, curiosa, non riuscì a impedirsi di bagnare le labbra nella bevanda dalla quale era stata messa tanto in guardia. L’irresistibile attrazione del frutto proibito!
Il vino romano era molto più pesante, più corposo dei nostri, e anche molto più alcolico, al punto che lo si beveva normalmente allungato in due misure d’acqua (pratica già allora aborrita dai veri bevitori). Insomma non erano necessarie grosse quantità per ubriacarsi a dovere.
Rossa di confusione
Le prime volte, Monica trovò disgustose le poche gocce che riuscì a bere: le diedero la nausea e le fecero girare la testa. Eppure, giorno dopo giorno, tornò a bagnarvi le labbra e, con lo stabilirsi dell’abitudine, le poche gocce divennero piccoli sorsi, poi i piccoli sorsi grandi sorsate e, in men che non si dica, la giovane si trovò a tracannare gagliardamente coppe intere che la portavano in uno stato di manifesta ebbrezza – cosa della quale i genitori, perfettamente indifferenti, non si resero conto.
Solo la serva, che l’accompagnava in cantina per tenerle la lampada, era al corrente dell’ignominiosa china. Non ne informò i padroni, sicuramente con l’intenzione di riservarsi il colpo da infliggere a Monica al momento opportuno. Arrivò il giorno in cui le due si ritrovarono sole dia cantina e Monica era già un po’ brilla: si presero a parole e la schiava, azzardando ma certa di farla franca, la apostrofò chiamandola “lurida piccola bevitrice di vino puro”, insomma le diede dell’ubriacona.
L’insulto la fece trasalire: era inverosimile che una schiava si permettesse di parlare alla padrona con questo tono ma, rossa di confusione, Monica si rese conto di aver meritato l’apostrofe. Era effettivamente una piccola bevitrice che si appartava per appagare il proprio vizio nascente, e con questo si esponeva al disprezzo di una serva insolente. Tale fu la vergogna che trovò la forza (e ce ne voleva) di non bere più neanche una goccia di vino. Così, con la grazia di Dio, si corresse definitivamente dal suo vizio.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]