In questo caso il silenzio non solo non fa rumore, ma rischia di sprofondare in un mutismo atroce. Il mondo si è dimenticato dell'Afghanistan, volge gli occhi altrove e questo sta benissimo al regime dei talebani che esattamente un anno fa, il 15 agosto 2021, entravano a Kabul e riprendevano il potere nel paese. Ci ricordiamo i loro comunicati ufficiali, a fronte delle grida allarmate dell'Occidente. Avevano promesso un governo moderato.
A un anno da quei fatti, oggi l'Afghanistan è un paese alla fame e allo stremo. Bersaglio privilegiato del regime sono le donne. Recluse tra le mura domestiche, negato l'accesso all'istruzione, licenziate dai posti di lavoro, costrette a fuggire.
E il silenzio generale regna su questa tragedia umanitaria, ma c'è chi - anche solo a forza di sussurri - rompe il muro di un mutismo imposto, rischiando la vita.
Repressa la marcia della donne a Kabul
Hanno avuto il coraggio di scendere in strada e alzare la voce per le vie di Kabul. Sabato 13 agosto una quarantina di donne ha osato una marcia di protesta, intonando lo slogan "Pane, lavoro e libertà". La meta del corteo è stata il ministero dell'istruzione, quella da cui le bambine e ragazze afghane sono sempre più escluse. La loro presenza ha fatto immediatamente intervenire un gruppo armato di talebani che, sparando in aria, ha bloccato il corteo. Le manifestanti sventolavano anche uno striscione con su scritto: “Il 15 agosto è una giornata nera”, riferendosi alla data dell’ascesa al potere dei talebani nel 2021.
Una delle presenti, che per motivi di sicurezza rimane nell'anonimato, ha dichiarato ai giornalisti presenti:
E questa è una delle poche voci sfuggite alla repressione. Infatti, oltre agli spari in aria, le forze talebane si sono assicurate di fare sparire ogni prova della protesta. Sono stati sequestrati telefoni e videocamere ai corrispondenti stranieri presenti. C'è chi riferisce anche di un ragazzo che passando in bicicletta ha scattato foto e si è visto strappare di mano il cellulare.
Se non si vede, il fatto non esiste. Questa strategia di repressione, però, non riesce a sopprimere tutti i tentativi di chi, avuto un assaggio di libertà nello scorso decennio, non vuole più rinunciarci.
Un diario virtuale a più voci, femminili
A differenza di quello che accade alle nostre latitutidini, il virtuale può essere virtuosissimo. Un'iniziativa a cura di un gruppo di donne afghane sta cercando di custodire uno spazio di memoria condivisa. Il silenzio imposto nella realtà è stato aggirato e sconfitto grazie alla tecnologia.
La parola distingue l'uomo dal resto del creato, è capace di memoria e testimonianza. Grazie a questa app sono stati racconti 1.500 messaggi (200 mila parole circa) che raccontano al plurale gli eventi dal 15 agosto 2021 ad oggi. Piccole storie di famiglie che vivono la paura e la repressione, e di donne che tentano di far sentire la propria voce.
Acqua bollente e una sciarpa rosa
Due esempi significativi ci possono dare un'impressione del clima che si vive in Afghanistan. Il primo è un messaggio scritto da una ragazza di nome Zainab, proprio nel Ferragosto dell'anno scorso, il giorno in cui Kabul è caduta nelle mani dei Talebani.
Cancel culture, quante volte usiamo quest'espressione sovrappensiero, senza renderci conto dell'atto disumano che è sopprimere una presenza, farne un nulla. Bruciare i libri è un'immagine iconica che associamo con sdegno ai regimi totalitari. Sciogliere i quaderni non un'immagine meno forte, disintegra come fa l'acido sul corpo o sul viso di certe vittime che abbiamo pianto.
Il secondo messaggio ci porta 6 mesi in avanti ed è quello di una donna di nome Parand che racconta un gesto quotidiano di pacifica protesta, per reagire all'idea di essere una non-presenza.
La lettera scarlatta metteva in mostra il peccatore, il castigo era la visibilità e il vituperio pubblico. Qui assistiamo all'opposto, alla punizione della sparizione ... anzi dell'evaporazione.
Cosa (non) si vede da sotto il burqa?
Le donne sono evaporate anche da Kandahar. E' la tragica constatazione messa nero su bianco da un bellissimo documento giornalistico di Lucia Capuzzi su Avvenire. Ed 'evaporare' non è un verbo solo simbolico. Indica la sparizione totale da un luogo in cui, anche prima del ritorno dei talebani, le donne erano emarginate. A Kandahar, infatti, domina la cultura pashutun, fortemente patriarcale.
Ma proprio lì, la giornalista di Avvenire ha raccolto la testimonianza di una donna che fa l'ostetrica e si chiama Habebe. Da questa voce s'impara un punto di vista rovesciato:
Pensiamo al burqa sempre dall'esterno, dal punto di vista di chi guarda una donna che lo indossa. E diciamo che cancella il suo aspetto. Ma fa molto di più. La voce di una donna che lo indossa ci dice che è il mondo a sparire alla vista sotto questo indumento-gabbia.
Non è dunque solo un abito per nascondere l'aspetto femminile, ma per distruggerla distruggendo la possibiltà di vedere il mondo, di sentirsi parte della realtà.
Sotto quel burqa, donne come Habebe continuano a non cedere alla logica dell'annichilimento. Per poter lavorare devono essere accompagnate da un parente maschio, devono accettare di tenersi il lavoro senza essere pagate. Devono subire un violento e costante attacco fisico e psicologico. Eppure tentano piccoli gesti di resistenza, che le mettono in pericolo di vita.