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Il Purgatorio esiste. Quindi Gesù è morto inutilmente?

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 02/08/22
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L’articolo da noi pubblicato sulla dottrina comune ai cristiani circa la purificazione oltremondana ha sollevato alcune obiezioni. Dopo alcune precisazioni di metodo, proviamo a rispondere.

Nell’articolo che abbiamo scritto ieri sul Purgatorio sono state toccate solo alcune questioni, fondamentalmente di ordine teologico, scritturistico e patristico, senza pretesa di esaustività e senza neanche provare ad affacciarci sulla prateria delle definizioni conciliari e della controversistica. Diciamo che, scioccati dalla domanda di chi in buona fede ci chiedeva come fare ad essere sicuri che il Purgatorio non l’abbia inventato Dante (sarebbe bello poter dare per scontato che si sappia in che epoca collocare la vita dell’Alighieri…), abbiamo dato un’occhiata a monte della sua epoca, senza indugiare su quanto sarebbe avvenuto a valle. 

La lezione tridentina 

Tra quanto di più rilevante avvenne, relativamente alla dottrina sul Purgatorio, da Lutero in qua, va certamente annoverato il Decreto sul Purgatorio del 3 dicembre 1563, il primo della 25ª ed ultima sessione del lungo e travagliato concilio (senza alcun dubbio il più importante dell’evo moderno). La succinta brevità del decreto ci permette di riportarne quasi integralmente il testo: 

Non è che si siano ricordati del Purgatorio solo alla fine del Concilio: la tematica era stata trattata, insieme con le indulgenze, dal 19 giugno al 25 luglio 1547, a Bologna, ma alla fine del novembre 1563 i Padri conciliari decisero di riprendere brevemente il tema in una forma esplicita e conclusiva. Nel testo riportato, come si vede, si fa menzione di precedenti insegnamenti dello stesso Tridentino. Il canone 30 del Decreto sulla giustificazione, ad esempio, recita: 

Come secondo capitolo del Decreto sulla Messa, firmato il 17 settembre 1562, si leggeva poi: 

Contestualmente, quest’ultimo concetto veniva ripreso e confermato nel terzo canone di anatematismo. 

Abbiamo riportato le date, relativamente tarde (il Concilio era cominciato nel 1545), per tornare a ricordare che il Tridentino non si era certo affannato a controbattere le tesi dei Riformatori (a questo compito si sarebbero dedicati i controversisti, mentre il Concilio intendeva fornire un insegnamento perenne, utile a prescindere da quella momentanea crisi). 

Benché abbia aperto una vasta e profonda ferita nella cristianità occidentale, la Riforma evangelica resta infatti una crisi dai contorni relativamente contenuti: quel che abbiamo provato a di-mostrare nell’articolo di ieri è appunto che non è completamente vera l’affermazione “i cattolici credono al Purgatorio”, quanto piuttosto quella “tutti i cristiani hanno sempre condiviso la credenza nel Purgatorio, salvo che nel XVI secolo, per via di pregiudizi dovuti a scandali ecclesiastici e a petizioni di principio, alcuni sono venuti meno all’integrità di questa fede”. E ci sarebbe molto lavoro, da fare in tal senso, beninteso da entrambe le parti, non invitando a un mero “ritorno a casa”: quando il Signore permette uno scisma, nella Chiesa, lo fa ordinandolo al bene di tutte le parti coinvolte. 

I furta Græcorum e gli spolia Ægyptiorum 

Fra i primi commenti all’articolo di ieri, tuttavia, ne abbiamo registrato uno che sintetizzava perfettamente quell’atteggiamento pregiudiziale e fondamentalista che ancora oggi ostacola il dialogo ecumenico: «Non andate dietro a queste storie, che le diceva anche Plutone!». Sic: Plutone. Ora, uno tra i molti àmbiti in cui dobbiamo rassegnarci al fatto che non supereremo i Padri della Chiesa è precisamente lo zelo nel passare al setaccio l’eredità culturale ellenica: se mai sono esistite persone minuziose fino all’insopportabilità nel discettare di ogni virgola di Platone e degli altri, quelli sono stati appunto i Padri della Chiesa, cominciando dagli Apologisti, e in particolare (per l’ovvia contiguità linguistica) i grecofoni. 

Lo studioso moderno può restare stupito al constatare quante energie i Padri profondessero nell’elaborazione di complicate cronologie storiche. Perché lo facevano? Principalmente per stabilire e dimostrare che le dottrine greche non erano anteriori a quelle della Rivelazione, bensì erano posteriori. Non furono peraltro i primi in assoluto a farlo: il giudeo alessandrino Filone avviò una scuola che almeno fino a Numenio di Apamea avrebbe raccolto accoliti nel definire Platone «un Mosè atticizzante». 

Da una parte si diceva quindi che erano stati i greci a saccheggiare la sapienza rivelata… e quando ciò non era possibile? Allora si ricorreva all’allegoria degli spolia Ægyptiorum: si diceva cioè che come gli ebrei del racconto dell’Esodo fecero bene a saccheggiare l’Egitto mentre ne fuggivano – fecero bene perché in ciò erano ispirati da Dio –, così gli ebrei e i cristiani avevano fatto bene a prendere quanto di vero, di buono, di bello e di utile si trovava nella cultura ellenica. 

Che la lingua potesse essere un criterio univoco per la valutazione dell’ispirazione biblica – ciò che per un po’ Girolamo credette –, gli fu contestato vivamente già da Agostino: la traduzione greca dell’Antico Testamento, quella detta “dei LXX”, presenta talvolta sfumature significativamente diverse rispetto ai testi ebraici o aramaici… ed è spesso quel testo, quello tradotto in greco dagli ebrei alessandrini, ad essere citato dagli autori (grecofoni) dei testi – tutti greci – confluiti nel Nuovo Testamento. Se dunque la Lettera di Aristea e la cultura filoniana avevano elaborato buone ragioni, a uso dei giudei, per ritenere valida e anzi ispirata la versione greca dei libri sacri, a maggior ragione quelle valutazioni si imponevano ai cristiani. 

Resta per questo tanto meno comprensibile come umanisti vissuti un millennio e mezzo dopo Filone, e che a differenza del filosofo medioplatonico non erano madrelingua né greci né ebraici, si posero a ripudiare un’ininterrotta tradizione ermeneutica che, pur con mille e mille cautele, aveva trovato molto di valido nell’eredità culturale ellenica. E mezzo millennio dopo siamo al punto che editori biblici protestanti curano edizioni critiche del Nuovo Testamento nelle quali riconoscono gli influssi dei libri considerati apocrifi da Lutero… e che fondamentalisti evangelici si trincerano dietro slogan semi-analfabeti quali “non date retta a Plutone!”. 

Alcune obiezioni sparse 

La questione dell’analfabetismo ci porta a ri-considerare un altro aspetto della lezione tridentina, emergente proprio dal breve decreto finale, il primo testo riportato: «Nelle prediche rivolte al popolo meno istruito si eviteranno le questioni più difficili e più sottili, che non portano all’edificazione, e quasi mai all’aumento della pietà» (e quanto segue). 

La bontà dell’intento dei Padri Tridentini è evidente: la Chiesa non è un’Accademia e il suo scopo non è la vuota speculazione (neanche la buona Accademia avrebbe questa finalità, in teoria…), bensì la salvezza delle persone; per questa ragione essa si propone di evitare quanto inutile ai suoi fini e fare quanto favorevole ad essi. 

Sul punto la lezione tridentina va necessariamente ri-valutata, e cioè aggiornata: cinquecento anni fa era relativamente facile riconoscere i contesti in cui gli argomenti potevano essere affrontati a un livello basilare, quelli in cui potevano essere approfonditi alquanto, quelli infine in cui potevano essere esplorati fino ai limiti delle loro estensioni (si ricordi il memorabile caso della disputa de auxiliis); oggi invece è impossibile evitare che in un unico uditorio si trovino insieme la persona ben equipaggiata nello spirito e nella mente, a cui si potrebbe proporre un approfondimento rigoroso, e l’ignorante più crasso (nonché debole nelle motivazioni spirituali della ricerca intellettiva) che fondamentalisticamente millanta verità indiscutibili proprio in quanto è privo delle benché minime basi. 

Ciò avviene evidentemente nella cybersfera, e in particolare sui social, ma l’esperienza insegna che accade pure nell’università: i corsi di letteratura, di storia, di filosofia e perfino di teologia sono gremiti di persone incapaci di ritenere correttamente i contenuti, di assimilarli in una struttura concettuale organica, e ciò che risulta dalla cosiddetta “formazione” universitaria è purtroppo spesso un’accozzaglia di nozioni spesso imprecise, quasi sempre sconnesse e fatalmente destinate a essere immagazzinate e riorganizzate secondo i bias di uno spirito già pre-orientato in base a previe esperienze (o, soprattutto, inesperienze). 

Tutto questo (che vale in generale) per dire donde promanano alcune delle obiezioni comunemente mosse alla dottrina del Purgatorio, delle quali vado a presentare una rapida rassegna. 

Diamo per risposta la classica “dove sta scritto nelle Scritture?” con l’articolo di ieri: se chiedi “dove sta scritto” e poi dichiari che i testi dove stanno scritti o non sono canonici perché redatti in greco o perché contenenti dottrine condivise anche da alcuni segmenti di cultura ellenica, non stai chiedendo “dove sta scritto” ma stai ritagliando le Scritture sulla base dei tuoi pregiudizî. Cosa che in molti fanno, specie in àmbito morale, ma che resta insensata (e ovviamente non lecita). 

Qualcuno ha obiettato poi: «Se esistesse il Purgatorio, allora Gesù sarebbe morto inutilmente, mentre Egli ha dato la Sua vita per noi». Una obiezione formulata in questo modo è la lampante dimostrazione che la dottrina sul Purgatorio è stata spesso illustrata male (e compresa peggio): il Purgatorio – come dimostra il fatto che anche Platone ne ha parlato (ma ha parlato anche di inferno e paradiso, se è per questo) – da un lato è un’esigenza postulata dalla ragione umana; dall’altro risulta possibile e anzi reale per i meriti di Cristo e per la sua Redenzione. La domanda che ci si deve porre, al crocevia tra i dati di fede e i dati di ragione, è questa: posti due uomini sul letto di morte, dei quali uno ha praticato le virtù cristiane per tutta la vita ed è giunto ad alti vertici nello studio delle Scritture e nell’esperienza mistica, mentre l’altro ha pascolato nella più supina indifferenza per molti decenni e solo in extremis, per grazia divina, sta formulando un atto di sincera contrizione, è pensabile che nell’istante successivo al trapasso entrambi stiano vivendo la medesima esperienza? Sarebbe come immaginare che un tale appena svegliatosi reagisca alla luce del sole ugualmente a chi è sveglio da ore. 

Un’altra obiezione suona: «In Lc 23,42-44 Gesù promette al buon ladrone che in quello stesso giorno egli sarà con lui in paradiso, dunque non c’è Purgatorio». Una possibile risposta si articolerebbe in due parti: 

    Un’altra obiezione pervenutaci è questa: «Posto che in Qo 9,5 si legge “i vivi sanno che moriranno, ma i morti non sanno nulla; non c’è più salario per loro, perché il loro ricordo svanisce”, come si può ancora sostenere la dottrina del Purgatorio?». Rispondiamo rilanciando: sulla base di questo (solo) passo cadrebbe non solo la dottrina del Purgatorio, ma anche quella del Paradiso e dell’Inferno. Il redattore dell’Ecclesiaste, infatti, di epoca postesilica, non sembra essere stato guidato da un intento tanto dottrinario quanto esistenziale, e dunque i novissima (ammesso e non concesso che alla sua epoca se ne stesse già elaborando la dottrina giudaica) non restano che sullo sfondo: l’autore invita alternatamente a godere della vita sensibile «come se non ci fosse un domani» (e forse non credeva che ci fosse un aldilà, perlomeno non come lo hanno elaborato il giudaismo farisaico-rabbinico e il cristianesimo) e/o ad attenersi scrupolosamente all’osservanza dei decreti divini. 

    Il testo dovette senz’altro servire nelle dispute medio-giudaiche tra Farisei e Sadducei, e in mano a questi ultimi poteva valere da serio ostacolo alla dottrina della vita dopo la morte. In un’ottica teologica che assume l’aldilà (e un aldilà retributivo), sia in contesto giudaico sia in contesto cristiano, il testo può essere interpretato allegoricamente in questo modo: i morti rappresentano quelli che vanno incontro alla “morte seconda”, alla morte dell’anima, mentre i vivi sono quanti già a partire dallo stadio mortale tengono desta la coscienza con la meditazione sui novissima. L’essenziale comunque è cogliere che il testo non è tanto una difficoltà per il Purgatorio, quanto per l’aldilà in generale. 

    Un’ultima obiezione pervenutaci è poi questa: «In Rom 6,23 si legge che “il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna mediante Cristo Gesù nostro Signore”, quindi quando l’individuo muore, con la sua morte ha già pagato tutti i suoi peccati, e dunque non c’è alcun bisogno di immaginare un Purgatorio». 

    Anche su questo passo (destinato comunque per ora a restare controverso nel dialogo cattolico-luterano, ma per altri motivi), è opportuno cogliere le coordinate del contesto prossimo, che deve raccogliere almeno i tre versetti precedenti: 

    Paolo afferma che a prescindere dalla grazia di Dio rivelata in Cristo l’uomo non ha il potere di fare il bene (che comunque continua a desiderare), e in tal senso era incapace di conformarsi alla giustizia di Dio. Invita però i credenti a considerare che cosa hanno ricevuto dalle opere compiute quando erano privi di grazia e dunque incapaci di vera giustizia: niente. Nient’altro che morte – fisica, spirituale, morale… La redenzione operata da Cristo cambia le cose: gli uomini sono passati dalla schiavitù del peccato alla servitù di Cristo, e in questo sono resi capaci di vera giustizia (una giustizia che possa a suo modo corrispondere al dono). Il dono resta sempre, per definizione, eccedente rispetto al merito, altrimenti sarebbe conforme al salario, mentre Paolo afferma che la morte è salario (cioè che è pienamente ed equamente conforme a ciò che merita l’uomo peccatore), mentre che la vita eterna è un dono, perché anche se l’uomo è realmente reso-giusto, giusti-ficato, ciò che riceve mediante Cristo resta infinito ed eterno, e dunque irriducibile a quanto di buono un uomo in stato di grazia può fare. Come si vede, però, il testo paolino non parla di quel che avviene alla morte dei singoli, bensì di come si possa (e si debba) vivere da redenti. 

    Considerando ancora l’obiezione, riteniamo che forse un passo più calzante per esprimerla sarebbe stato questo: 

    Anche qui, è evidente che quanto affermato nella prima parte della similitudine è funzionale al contenuto della seconda parte, ma possiamo ugualmente soffermarci a considerare la sola prima parte, e stavolta effettivamente si parla del momento della morte e del giudizio: si muore una volta sola e subito c’è il giudizio, quello individuale. Questo pone problemi alla dottrina del purgatorio? Solo se la si comprende e la si spiega male: il purgatorio in cui i cristiani hanno sempre creduto (e in questo sono andati oltre la credenza di alcuni pagani, perché Platone non poteva immaginare quale fosse l’energia divina capace di alimentare la vita dell’uomo dopo la morte) esiste esclusivamente – quantunque non necessariamente – per i beati

    Solo le anime dei salvati, insomma, possono dover attraversare un momento purgativo (del quale è certamente arduo stabilire in modo univoco la durata temporale). Per esse continua in un modo particolare – caratterizzato anche da una certa sofferenza personale – quel processo di interminabile immersione di ogni uomo nell’infinito oceano divino che già comincia dalla conversione a Cristo; quello del quale l’Apostolo ha detto: 

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