Alla data del 1º agosto il Martirologio Romano riferisce:
Dal De civitate Dei di Agostino sappiamo che ad Antiochia era eretta un’antichissima basilica (già scomparsa nel V secolo) per celebrare il loro culto, ed è triste – lo scrivevo altrove – che i cristiani abbiano nutrito calorosa devozione ai sette fratelli martiri perlopiù in epoche in cui il loro culto alimentava le frizioni con gli ebrei (nel tardo-antico) o (per ragioni distinte) con i protestanti (nell’evo moderno).
Purgatorio e Maccabei, (poco prima di) Dante e Lutero
Se fossero stati più costanti e consapevoli, soprattutto i cattolici, mai nessuno avrebbe osato scrivere (e invece più bulbi oculari ne sono stati offesi) che «il Purgatorio l’ha inventato Dante». Affermazione che fa il paio con l’altra, dissennata, per la quale «la Sindone l’ha dipinta Leonardo» (la Sindone non è dogma di fede, a differenza del Purgatorio, ma qualunque cosa essa sia è attestata per via documentaria almeno tre secoli prima della nascita del genio di Vinci…).
Da dove partire, dunque, per distruggere questa montagna di ignoranza (e tentare poi di ricostruire qualche conoscenza fondata)? Probabilmente dalla lettera che Lutero scrisse a Spalatino il 7 novembre del 1519 (si noti la data: erano passati appena due anni dalle famose “95 tesi” [che non furono affisse alla porta della cattedrale di Wittenberg]):
“Un certo Vincent” è Vincenzo di Beauvais, morto nel 1264, ed è vero che una lettura rigorosa di Gv 15 non può leggervi “il Purgatorio” sic et simpliciter. La prima volta (a noi nota) in cui si usava il sostantivo “Purgatorio”, però, era occorsa già un secolo prima (circa duecento anni prima di Dante…), ed era stato il venerabile Ildeberto di Lavardin (1056-1133) a produrne il testo in una sua omelia. In essa il santo vescovo normanno spiegava che per costruire la Gerusalemme celeste bisogna estrarre, lavorare e prepararne le “vive pietre” (che sono gli uomini), e che di queste operazioni si fa carico Dio «per conformarle allo splendore della sua immagine»:
La pagina del venerabile Ildeberto è delicata e raffinata, e rende ragione della fama del suo autore, che passò per uno dei grandi autori della rinascenza francese del XII secolo: meritano attenzione in particolare i rimandi tra l’esegesi scritturistica, allegorica ma non arbitraria, e il dato liturgico (torna il rimando al 31 ottobre, del quale si esplicita la rilevanza cristiana…). Merita poi attenzione il fatto che Ildeberto non si appoggi a 2Mac 12,43-46, bensì a 1Cor 3,11-15, per sostenere il suo pugatorium. Il che non vuol dire che egli non ritenga affidabile il testo deuterocanonico, bensì che (conformemente alla tradizione patristica) egli non lo ritenga l’unico fondamento dogmatico del Purgatorio. In teoria, Lutero avrebbe potuto/dovuto apprezzare molto questo testo, perché in questa omelia Ildeberto stava probabilmente strigliando dei confratelli cluniacensi molto più attenti alle prebende conferite al monastero dai contadi circostanti che ai loro compiti spirituali (donde l’insistenza sui temi penitenziali di 2Cor 11,27). Non so però di testi di Lutero in cui si citino le sue opere, e del resto le omelie di Ildeberto risultano relativamente rare, stando ai codici: quel che è certo, però, per quanto ci riguarda, è che né Dante né Vincenzo di Beauvais furono i primi a parlare di Purgatorio, bensì (almeno) Ildeberto di Lavardin; pure importante è che egli non si senta legato al testo di 2Mac…
Ma che dire della riserva di san Girolamo a cui Lutero si richiamava? Così scrisse l’autore della Vulgata (che effettivamente nella sua prima versione non comprendeva i libri originariamente composti in greco):
Ecco il punto a cui sembra riferirsi Lutero quando dice che il libro dei Maccabei «non fa articolo di fede». A parte il fatto che Girolamo si riferisce direttamente a “questi due altri volumi”, invitando a non considerarli come fondamento dottrinario, ma pure ammettendo che sottintendesse un’analogia con i Maccabei, quel che Girolamo afferma è che le dottrine della Chiesa sono un’entità distinta dai libri sacri, e che in alcuni di questi si trovano fondamenta a quelle, non che una dottrina ecclesiastica è legittima se e solo se è contenuta nelle Scritture. Girolamo, insomma, non afferma il sola Scriptura (del resto, neanche nelle Scritture stesse se ne trova traccia).
Insomma è Ildeberto, non Lutero, a compiere correttamente il circolo ermeneutico:
Ma a parte tutto questo, sta di fatto che Girolamo stesso volle rimettersi «al giudizio delle Chiese» e, nella seconda versione della Vulgata, incluse anche i deuterocanonici. Fece cioè prevalere il sentire ecclesiale sul proprio genio teologico. Passaggio a cui Lutero, almeno su questo punto, non sarebbe arrivato. A parziale giustificazione si può addurre gli scandali alimentati dai romani pontefici (almeno da Alessandro VI a Leone X) per alimentare la Fabbrica di San Pietro a suon di indulgenze (s)vendute.
La fede dei cristiani nel Purgatorio (molto prima di Lutero e Dante)
Ciò fu indiscutibilmente uno stupro della dottrina cristiana sul purgatorio, ma è impossibile affermare che per quello si possa invalidare questa. Il primo attestato ecclesiale della fede nel purgatorio è la coscienza embrionale di una misericordia di Dio che – fatta salva la dottrina delle “due vie” escatologiche (quella per cui alla fine del mondo non potrà esserci una “via media” tra il Paradiso e l’Inferno) – possa “convertire anche dopo la morte”. Convertire, si badi, non perdonare: benché la distinzione tra colpa e pena fosse ancora di là da venire, la coscienza ecclesiale non giunse mai a pretendere che la “politio” nell’aldilà possa rovesciare una “opzione fondamentale contro Dio”, la quale invece postula ed esige l’Inferno.
Negli Atti di Paolo e Tecla (tardo II secolo) si legge ad esempio:
Pochi anni dopo fu redatta (forse da Tertulliano) la Passione di Perpetua e Felicita, che dedica ben due capitoli a un racconto simile:
Evidentemente, nessuno pretende che questi testi – a differenza di 1Cor 3 (e di 2Mac 12) in nessun modo canonici – possano essere addotti a luoghi dogmaticamente probanti, che cioè un cristiano oggi debba credere al purgatorio «perché sta scritto qui». Esattamente al contrario: un cristiano oggi deve credere al purgatorio perché i cristiani ci hanno sempre creduto, come attestano anche questi testi; e quegli stessi cristiani hanno ritenuto di poter fondare la propria fede su testi (canonici) come 1Cor 3 e 2Mac 12.
Tertulliano sarebbe tornato a descrivere quella specie di sheol della visione onirica di Perpetua anche nell’ultimo capitolo del De anima, e dopo argomenti filosofici e teologici conclude:
Conformemente al suo stile apologetico, Clemente di Alessandria avrebbe invece enfatizzato la contiguità fra l’embrionale dottrina cristiana sul “purgatorio” e quella latente nella sapienza ellenica:
Più nitido appare, sempre in Clemente, il riferimento a 1Cor 3, laddove un paio di libri dopo si legge:
Anche Origene sarebbe tornato ad esprimere questa dottrina, nelle Omelie sui Numeri (15) e in quelle su Luca (24,13). In Occidente, Cipriano avrebbe usato esplicitamente il verbo purgare e già tra IV e V secolo “purgatorius” si sarebbe imposto (come aggettivo!) per qualificare il fuoco e le pene a cui alludevano i testi or ora scorsi.
Non si capisce davvero, dunque, a che cosa si riferisse Lutero parlando della mancanza di sostegni patristici:
Che fastidio dà il Purgatorio? (Attorno a 1Cor 15,29)
Si eccederebbero di gran lunga i limiti di un articolo divulgativo, se volessimo riportare tutti questi testi, e se anche lo facessimo saremmo ben lungi dal dare un’idea esaustiva del vigore che la dottrina del purgatorio ha sempre avuto in àmbito cristiano, a partire dall’antichità e ininterrottamente fino ai nostri giorni, forse la prima epoca di generale e scettico disinteresse per il purgatorio.
Non mi pare di aver mai riscontrato (chiaramente per via documentaria) un momento dell’avventura cristiana in cui fosse più basso l’interesse verso il Purgatorio:
Le teologie contemporanee lo rigettano come puerile a fronte delle teorie post-kantiane sulle forme pure a priori, ma se certi “teologi” avessero mai letto Tertulliano saprebbero che le loro obiezioni erano già state previste e aggirate all’inizio del III secolo: la ragione umana si unisce alla fede nel postulare che la morte non sia semplicemente una “botola che immette nell’eternità”, perché ne verrebbe negata la dottrina della communio sanctorum.
Il Purgatorio esiste insomma perché da sempre i cristiani hanno ritenuto che i beati potessero intercedere per i vivi, e che questi da parte loro potessero intercedere per i morti… o almeno per alcuni fra loro (cioè per quanti non sono dannati e non sono ancora in grado di godere della visione divina). È cosa impressionante che Paolo mostri attestata questa credenza proprio a Corinto, e che non mostri di riprenderla quantunque la forma dell’attestazione sia decisamente estrema:
A metà degli anni ’50 del I secolo (praticamente il giorno dopo la Pentecoste) si attesta che in una delle principali e più grandi comunità giudaico-cristiane della diaspora è invalsa la pratica che si potrebbe dire dell’“anabattismo vicario”: gente che aveva accolto il messaggio cristiano magari uno, dieci o vent’anni dopo la morte di coniugi, genitori, parenti o amici… e comprensibilmente desiderava fare qualcosa di utile anche per loro (“lucrare loro qualche grazia dai meriti di Cristo”, si direbbe con anacronistici modernismi).
Il passaggio è rapidissimo, e da Tertulliano e dal Crisostomo sappiamo che ancora fino al III e al IV secolo la pratica continuava ad attestarsi in alcune frange ereticali… ma la cosa che colpisce è che Paolo non si attarda a contestare la liceità della prassi, anzi vi si riferisce come ad argomento a sostegno della predicazione della risurrezione: «Questa pratica può avere un senso – è ciò che l’Apostolo scrive ai Corinzi – solo se una risurrezione effettivamente si dà».
Ora potremmo finalmente chiederci, in sede di storia del dogma cristiano,
Nel rispondere all’una e all’altra questione viene da accostare il versetto in esame a quello che apre la sezione sulla risurrezione, e al quale il successivo fa evidente riferimento stilistico:
Quando si riferisce alla dottrina della non-risurrezione, di ascendenza sadducea, Paolo dice “alcuni tra voi”, contrapponendo a questa incredulità serpeggiante la dottrina da lui predicata (“il nostro annuncio”, si legge in 1Cor 15,14 con plurale maiestatis/modestiæ). Quando invece parla dell’anabattismo vicario si usa un semplice participio medio-passivo al presente, senza complementi partitivi di sorta: se ne ricava l’impressione che
Che vuol dire questo? Che verosimilmente Paolo non ha insegnato quella prassi, ma che pur non avendola raccomandata non l’ha neppure ostacolata. E ha tenuto questa politica perché la credenza che faceva da sostrato alla prassi – ossia che i vivi potessero intercedere per i defunti – era
Quando diciamo “trasversale alla comunità giudaico-cristiana” intendiamo dare per verosimili due asserti:
Lungi dall’essere un’“invenzione di Dante” (figuriamoci!) o di Bonifacio VIII o di Alessandro VI o di Leone X, la credenza che i vivi potessero intercedere per i defunti era dunque parte della koinè culturale-spirituale ellenistica, condivisa da secoli con ampia trasversalità anche all’interno di religioni come i nient’affatto monolitici giudaismo e nascente cristianesimo.
La prova? Appunto il fatto che essa sia stata attestata nel deuterocanonico testo dei Maccabei:
Lutero ammise che il testo era chiarissimo, ma colse lo sbilanciamento metodologico di Girolamo per giustificare il proprio intervento ermeneutico sul Canone (tanto più grave perché avvenuto quando l’uso si era consolidato da più di mille anni), e lo fece in base alla propria personale sensibilità teologica, la quale era stata ustionata dai (gravi) abusi promossi da Roma per la propria sete di denaro.
Più recentemente, invece, si è preteso di espungere la credenza nella possibilità di intercedere per i defunti proprio in nome del fatto che essa fosse condivisa anche fuori dall’alveo della Rivelazione: si sarebbe cioè dovuto procedere a epurare il testo sacro da quella che sembrava una contaminazione ellenistica. Le contraddizioni di un simile approccio metodologico, che da un lato pretende di scremare i testi sacri da quanto si pretende estraneo rispetto alla “pura rivelazione” e dall’altro si vantano dell’ancillarità in cui subordinano la teologia alle scienze sociali, sono sotto gli occhi di tutti. Soprattutto, esse sembrano derivare da una scarsa familiarità con il mistero dell’Incarnazione, dal quale deriva recta via (e per divina disposizione) la necessità, per il teologo, di inserirsi in una dialettica ecclesiale che lo tenga al riparo, per quanto possibile, dal delirio del proprio ego spirituale.
Le chiese cristiane si gioverebbero molto di un umile e sapiente disarmo dei pregiudizî: se sul punto specifico, ad esempio, i protestanti ammettessero i torti di Lutero nel mutilare il Canone e i cattolici quelli del Papato nell’abusare delle indulgenze, tutti potremmo tornare ad abbeverarci alle fonti di una dottrina incontestabile perché condivisa da tutti i cristiani della storia.
Mi ha fatto sorridere, e mi ha dato speranza in tal senso, che un teologo ed editore biblico ritenesse che Paolo avesse dettato quelle righe proprio pensando alla pagina maccabaica. Chi è questo teologo? In realtà sono due: Kurt Aland e Barbara Nestle, marito e moglie, protestanti (!), e autori di quella che ancora oggi è l’edizione critica del Nuovo Testamento più accurata e completa di cui si disponga.
Pregate per Kurt e Barbara: forse non avranno più bisogno di intercessione nel loro purgatorio, ma in tal caso potranno intercedere a loro volta per noi, per le nostre Chiese, per i nostri studi, per la nostra fede cristiana.