Morte, maestra di vita
In questi giorni una lunga citazione da un romanzo di Alessandro D'Avenia sta conoscendo un'ondata di fortuna social. Si tratta di una riflessione e di un monito, se chi legge se ne fa carico, rispetto a ciò che nei giorni che ci sono dati da vivere conviene perseguire e, soprattutto, a ciò che conviene tralasciare finché si è in tempo.
Il fatto di potersi spogliare, alleggerendo il carico che credo in tanti sentiamo di portare sempre un po' al limite delle nostre forze o gravato di inutili cianfrusaglie, dà sollievo. E allora perché non lo facciamo?
Cosa ci avvince e nostro malgrado ci vince?
Mondare per poter raccogliere
L'elenco di ciò che potremmo trovarci a rimpiangere a ridosso della morte, e che qualcuno ha ripreso e messo in primo piano, è estratto dal libro del 2014, edizioni Mondadori, Ciò che inferno non è.
Ed è proprio un lavoro di mondatura, di pulizia e scarto, quello che emerge dalla lista nero su bianco: è un lavoro che va fatto per proteggere ciò che deve arrivare a maturazione per il momento del raccolto, quello che i cinque rimpianti ci conducono a fare.
Siamo al capitolo 32, il narratore ci ha precipitato in piazza Anita Garibaldi dove l'aria è ferma e la vita di Don Pino Puglisi se ne sta andando con il sangue che gli gocciola fuori, sempre più lento, spinto da una forza che va scemando. Ma lui rimpianti non ne ha.
Prova solo una umana, dolce nostalgia per ciò che sta per lasciare, ma per ritrovarlo altrove: le facce, le voci, i suoni che sa. Uno strappo che presto sarà rimarginato in lui che vede e ciò che lascia e ciò che sta per incontrare. Ed è Quello che, mentre compirà il suo cuore, arriverà in piccole gocce di consolazione anche nel cuore degli amici che a breve lo piangeranno, dei bambini che non lo vedranno tornare in oratorio e che per questo soffriranno, ma senza disperare.
Il rimpianto, segno che siamo nel tempo ma siamo fatti per l'infinito
Perché Don Pino non ha rimpianti? cosa ha fatto prima di morire, preparandosi in ogni istante a consegnare la vita, giocata tutta sul piatto dei giorni che gli è stato offerto?
Ha amato, ha dato tutto sé stesso, ha speso la sua vita per congiungere gli uomini e Dio, nello spicchio di realtà in cui gli è stato dato di vivere, con quei colori e suoni, con quegli odori e cantilene, con quelle facce lì, quelle strade, le finestre, il mare.
Ha accettato che il suo desiderio di amore e possesso vero delle cose si piegasse in quei vicoli, sostasse in quelle stanze, si affacciasse, spesso camuffato, da quei volti.
Solo oltra la soglia che sta per superare tutti i paradossi si scioglieranno coi loro strani nodi che qua ci affascinano e irritano, solo oltre quel limite vedrà che ciò che ha donato ora gli appartiene davvero. Basta, è entrato nell'abbraccio di Dio dove ogni desiderio è compiuto e il dolore non trova stanze in cui entrare.
Non sono cose, ricchezze o esperienze esclusive quelle che ci dispiacerà di aver perso al momento di andarcene da qui; sarà la rinuncia alla libertà di essere noi stessi, la trascuratezza dei legami in cambio dei "risultati": sul lavoro, negli sport, in tutto ciò che può diventare competizione. Ci mancherà la verità, il non averla difesa, promossa, scelta quando era ora di farlo.