Che ne sa il cuore, Alessandro?
In un certo senso, come diceva Chesterton, i morti sono vivi. Certe voci, di uomini indiscutibilmente defunti, continuano a generare occasioni di incontro tra i vivi. È infatti grazie ad Alessandro Manzoni se ho conosciuto e ascoltato la storia di un altro Alessandro, un ragazzo di 14 anni che vive a Busto Arsizio. Sua madre Francesca mi ha scritto per chiedermi consiglio per una tesina sui Promessi Sposi per l'esame di terza media di suo figlio, argomento: il cuore.
Quello che poteva essere un tema sdolcinato di letteratura, mi ha catapultato nella vita vera di una famiglia in cui troppo presto un piccolo cuore ha smesso di battere, e poi ha ripreso. Così mamma Francesca racconta il buio che all'improvviso è sceso su di loro:
A questo punto della storia il buio è proprio pesto, le ipotesi dei medici non contemplano la speranza. Eppure:
Oggi siamo qui, Alessandro ha passato l'esame di terza media ed è pronto per le superiori. E ha scelto di preparare una tesina sul cuore per guardare dritto in faccia la sua fragilità, che forse - facendogli percorrere una strada non pianificata - gli sta svelando un grande progetto di vita: quello di diventare medico.
C'è sempre un Don Rodrigo che si pianta in mezzo alla strada, blocca la via più scontata. Ci costringe a mettere in discussione tutto, e forse ad abbracciare più realtà di quella che avevamo pianificato.
Sul campo da gioco si corre
Ho aspettato che Alessandro finisse il suo esame, poi gli ho chiesto se volesse fare una chiacchierata con me. Si parla molto dei giovani sui giornali ma è raro farli parlare, lasciare, cioé, che sia la loro voce al centro della scena. Li etichettiamo più di quanto li ascoltiamo. E non è facile parlare con un 14 enne (lo dico da mamma di un ragazzo adolescente con cui il confronto quotidiano è un'ininterrotta avventura sulle montagne russe). Per questo in un primo momento avevo pensato di intervistare sua madre Francesca. Una chiacchierata da mamma a mamma significava rimanere nella comfort zone.
Alla fine ho messo al centro la voce di Alessandro, ritagliandomi un momento finale di confronto anche con Francesca. E in questa forma 'doppia' vi riporto la nostra chiacchierata, che mi ha permesso - una volta di più - di riconoscere che genitori e figli danno vita a un mostro (è un legame in cui ci si assomiglia anche riconoscendo una distanza abissale di tempra e di emotività ... quello stupore assurdo per cui una madre dice: 'Ma tu sei davvero mio figlio?).
Grazie Alessandro della tua disponibilità a raccontare la tua storia. Chi sei oggi?
«Sono una persona a cui piace muoversi, stare in movimento. Non mi piace stare seduto a fare la stessa cosa. In questo periodo estivo vado all'oratorio e lì mi piace fare soprattutto giochi dove ci si muove, come il calcio. Non ho un ruolo preciso, gioco per divertirmi. Ho molte energie, ecco. E sono un tipo da squadra, non sto da solo. Mi piace fare esperienze insieme agli altri. Caratterialmente sono forte ed entusiasta.
Se non avessi avuto questa malattia probabilmente sarei andato a fare il calciatore, il nuotatore, qualcosa di molto fisico. Non potendo dedicarmi allo sport in modo agonistico, diciamo che grazie alla mia malattia mi sono avvicinato alla musica. E adesso la considero come la mia via di fuga dalle apprensioni che mi può procurare la vita. Suono il pianoforte e, conoscendomi, il mio insegnante ha scelto per me come brano da eseguire all'esame di terza media un pezzo di Chopin molto energico, ci sono tanti 'cambiamenti di umore' nello spartito e sono tutti da rendere bene, in questo senso ci vuole energia. Sì, la musica mi permette di fare quello che in un campo all'aperto non posso fare».
In fondo la musica è proprio 'movimento', certi pianisti mentre si esibiscono sono più energici di un attaccante di serie A. Hai trovato una via di espressione all'entusiasmo vitale che hai dentro. Ma hai accennato alla tua malattia, cosa mi dici di questo?
«La mia malattia è una cardiomiopatia dilatativa, in sostanza la mia funzione cardiaca è ridotta e il mio cuore non pompa con la forza con cui dovrebbe pompare. A causa dello shock cardiogeno che ho avuto da piccolo anche la forma del mio cuore è cambiata. Tengo a bada i problemi che insorgono con le medicine.
E finché io posso fare quello che voglio fare, lo faccio senza problemi. Se mi mettessi a considerare solo quello che non posso fare, mi deprimerei e basta».
Chiamare le cose col loro nome, andare al cuore
Dal divano di casa alla terapia intensiva, è stato questo il terremoto che ha scosso la vita di un'intera famiglia. Alessandro aveva appena 10 giorni di vita e ha vissuto tutto sulla sua pelle, eppure senza la consapevolezza terrorizzata dei genitori che aveva accanto. Crescendo, quello shock cardiaco ha continuato a fare parte della sua storia ed è cresciuta anche la sua coscienza dei fatti e della propria vita.
Alessandro oggi ha una spiccata attitudine scientifica, e ha scelto di approfondire il tema del cuore nella sua tesina d'esame considerandolo sia come 'contenitore' dell'emozioni, ma soprattutto come muscolo del corpo umano. Mi ha parlato con entusiasmo di come ha voluto studiare la storia dei trapianti e anche l'anatomia di Leonardo da Vinci, di cui ci restano disegni impressionanti del muscolo cardiaco.
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Poteva essere diversamente, poteva scegliere di lasciare la sua fragilità nel cantuccio di vita che le spetta (la cura, le visite, le medicine, l'attenzione ai gesti quotidiani). E invece Alessandro dimostra una vigorosa curiosità verso l'organo che lo ha reso vulnerabile. Perché?
Alessandro, immagino che questa tua curiosità sul cuore nasca dalla tua storia personale, dalla fragilità che hai vissuto fin da piccolo. Hai trascorso molto tempo in ospedale, ti fa paura?
«Da piccolo avevo paura. Poi nel tempo è cambiato, anche perché devo andare spesso a fare dei controlli in ospedale. L'abitudine ha tolto la paura, adesso vivo ogni novità come qualcosa da imparare. È stato così con la risonanza magnetica, che ho vissuto con un filo di spavento e poi invece ho considerato come qualcosa da scoprire, ero curioso di capire che tipo di informazioni potevano uscire da quella macchina. Lo stesso vale coi dottori, li riempio di domande. Voglio sapere il significato dei termini che usano, perché scelgono un trattamento medico piuttosto che un altro. Ad esempio, ho voluto sapere perché non posso fare il vaccino Covid, visto che ogni anno posso fare il vaccino antinfluenzale».
Capisco che sei molto positivo e forte, c'è stato anche un momento in cui ti sei ribellato al fatto di avere questa malattia? Ti sei chiesto 'perché a me?'?
«Me lo sono chiesto molte volte. Ma non mi sono chiesto solo 'perché a me?', mi sono chiesto anche 'che cosa ha in serbo per me questa condizione?'. La mia migliore ipotesi è che l'esperienza di questa malattia mi porti a essere d'aiuto ad altre persone. Non saprei che altra risposta dare. Senza dubbio sono arrivato a questa consapevolezza positiva, grazie ai miei genitori e anche i miei nonni. Siamo molto uniti come famiglia, anche se ci sono momenti di litigio e credo sia normale in tutte. In questi 14 anni sono stato molto sostenuto da loro e quindi mi ritengo molto fortunato.
Ovviamente la malattia è uno svantaggio. Tante cose che i miei compagni fanno senza pensarci troppo, io devo farle con attenzione o non farle. Da grande vorrei fare il medico per capire il perché, cos'è successo al mio cuore e darmi da fare per vedere se è possibile che non capiti ad altre persone».
Hai posto queste domande anche a Dio?
«Faccio molte domande a Dio, sul perché ha scelto questa storia per me. Ma non sono arrabbiato. Il mio rapporto con la fede è sereno, faccio da tanto il chierichetto in chiesa. Sento l'aiuto di Dio, anche se non è qualcosa di fisico».
Una famiglia travolta e stravolta
Lo ripeto, parlare con un 14enne è una bella arrampicata. Noi adulti siamo abituati ad accarezzare i rapporti con gli altri, a usare forme rituali e consolidate di convenevoli. I ragazzi vanno dritti al punto, dicono quel che devono dire. E sono sintetici, forse perché - e non è per forza negativo - tengono per sé il nucleo incandescente del loro mondo interiore. Lo custodiscono, ecco, dalle intromissioni degli altri. Questo noli me tangere, l'ho sentito parlando con Alessandro e mi ha colpito: raccontarsi non è facile, e non significa dare all'altro l'illusione che l'intimo di una persona sia una faccenda chiara, risolta, digeribile.
L'altra faccia della medaglia è il racconto di un genitore. Parlare con mamma Francesca delle stesse cose già affrontate da Alessandro mi ha catapultato in un universo opposto, quello della cura e dell'apprensione, quello della responsabilità che può dire ad alta voce la paura e la fragilità.
Francesca, come si sta di fronte a un vulcano come tuo figlio?
«È bello e faticoso. Lui esige da noi genitori la stessa energia che ha lui, e non sempre io ce l'ho. Ma la devo tirare fuori. Mi sento più fragile di lui, a volte ho la tentazione di dire 'questa volta non ce la faccio', oppure di arrabbiarmi. Invece, Alessandro riesce a incanalare le mie risorse in energia buona, esige questo.
Aggiungo che in famiglia siamo in 4, ho un altro figlio di 18 anni che quando è successo tutto ne aveva solo 4 e anche lui ha un po’ subito quello che è successo perché io mi sono stabilita in pianta stabile a Bergamo prima in un appartamento messo a disposizione dalle suore poi in ospedale è non è stato facile nemmeno per lui restare solo con il papà e i nonni mentre i io e Alessandro siamo spariti da un giorno all’altro.
Da quando è nato Alessandro, dico che la sua venuta ci ha travolto e ci ha stravolto. Non solo tutto è stato stravolto rispetto a come lo avevamo immaginato, ma siamo stati travolti dal piccolo tsunami che è la sua persona».
Alessandro dice che non ha più paura dell'ospedale. Tu come vivi il rapporto con quell'ambiente totalmente 'estraneo' in cui sei stata catapultata quando Alessandro ha rischiato di morire appena nato?
«All'inizio è stato il buio totale, anche sulle parole. Non capivo i termini che usavano i medici. Patologia, terapia non sapevo cosa significassero davvero. Mi ricordo delle prime volte in cui ascoltavo i dottori, vedevo uscire le parole di bocca ma per me non avevano suono. Erano parole mute. L'unica mia litania era ripetere: ma c'è speranza? può guarire?. Non mi interessava niente delle spiegazioni scientifiche.
Oggi in ospedale Alessandro è puntiglioso nel chiedere ogni dettaglio ai medici. Quando facciamo le visite, io esco sempre devastata moralmente mentre lui è vulcano e vede in ogni referto un passo di conoscenza in più. Mi dice: "Mamma, muoviti, non stare a rimuginare"».
Tuo figlio vuole fare il medico per sapere 'perché' il cuore può cedere. Ed è una premura di conoscenza già spostata verso gli altri, non incaponita a esigere una spiegazione sul proprio destino segnato. Tu ti fai questa domanda?
«Ho fatto tanta fatica ad accettare quello che è accaduto, alla fine la chiave vincente è stata quella di accettare senza capire il perché. Liberarmi dall'ossessione di una spiegazione ci ha permesso il successo - se di successo si può parlare - di vivere il quotidiano in serenità. Quando ho smesso di chiedermi perché, ho cominciato ad essere forte per mio figlio. Finché mi logoravo con le domande e piangevo, ero semplicemente distrutta. Non ero capace di accettare quello che era successo. La forza di Alessandro, oggi, non è campata per aria, ha attraversato dei momenti difficili. Però, una volta superata la difficoltà, non ci ritorna su, va avanti.
Perciò questo esame di terza media per noi è stato un grande traguardo, rispetto allo scenario che ci avevano prospettato i medici appena nato. Mi avevano preparato al peggio. Considerando lo shock cardiaco che ha avuto, avevano ventilato l'ipotesi che non camminasse, poi che fosse dislessico e altro. Ogni tappa della sua vita se l'è sudata.
Chiedo anche a te quello che ho chiesto a tuo figlio. Hai fatto i conti con Dio?
«Ero un po' arrabbiata con Dio, poi ho imparato ad affidarmi. Una volta resami conto che questa malattia non poteva sparire, ho cominciato a fare un passo alla volta. Mi ricordo dei giorni in cui è rimasto ricoverato dopo lo shock cardiogeno e io mi tiravo il latte. E pregavo che in quel grammo di latte ci fosse dentro tutta la mia forza, tutta la mia fede, ci fosse dentro un miracolo. Ero felice quando potevo dare alle infermiere quei sacchetti di latte che congelavano, per quando avrebbero potuto essere usati. Era l'unica cosa che potevo fare, perché Alessandro era in terapia intensiva e non poteva essere toccato. Potevo tenergli solo un ditino, mi sentivo inutile. Ero impotente, però potevo fare quelle piccole cose. Potevo tirarmi il latte e cantare standogli vicino.
Nel tempo questa è stata la strada da percorrere, resta molta impotenza e resta la nostra disponibilità ad accogliere ogni giorno e le piccole cose che possiamo fare».