C’è una ragione che spinge a rappresentare il peccato nell’arte?
Già nel 1936 la Chiesa aveva identificato il cinema come una forza significativa per il bene nella società, così come una forza tremenda per la corruzione. Nella sua enciclica “Vigilanti Cura”, papa Pio XI sottolineava i pericoli del cinema attraverso parole che suonano valide ancora oggi, con riferimento non solo al cinema, ma a tutte le arti: “La ricreazione, infatti, nelle sue molteplici forme, è divenuta ormai una necessità per la gente che si affatica nelle occupazioni della vita; ma essa dev’essere degna dell’uomo ragionevole, e perciò sana e morale; deve sollevarsi al grado di un fattore positivo di bene e suscitatore di nobili sentimenti. Un popolo che nei suoi momenti di riposo si dedica a divertimenti che offendono il retto senso del decoro, dell’onore, della morale, a ricreazioni che riescono occasione di peccato, specialmente per i giovani, si trova in grave pericolo di perdere la sua grandezza e la stessa potenza nazionale” (Parte II).
Con lo stesso spirito, papa Pio XII, nella sua enciclica del 1957 “Miranda Prorsus”, ha affermato che sia l’arte che il pubblico si degradano quando l’arte è animata da una concezione erronea di libertà che sostiene il diritto a rappresentare e diffondere qualsiasi cosa. Citando il suo breve discorso in occasione del quinto centenario della morte del Beato Angelico, Pio XII affermava: “È vero che all’arte per esser tale, non è richiesta una esplicita missione etica o religiosa”, ma “se il linguaggio artistico si adeguasse, con le sue parole e cadenze, a spiriti falsi, vuoti e torbidi, cioè non conformi al disegno del Creatore, se, anziché elevare la mente e il cuore a nobili sentimenti, eccitasse le più volgari passioni, troverebbe spesso eco e accoglienza, anche solo in virtù della novità, che non è sempre un valore, e della esigua parte di reale che ogni linguaggio contiene; ma una tale arte degraderebbe se stessa, rinnegando il primordiale ed essenziale suo aspetto, né sarebbe universale – perenne, come lo spirito umano, a cui si rivolge”. Pio XII parla di arte come di un appello allo spirito umano – una realizzazione compiuta catturando il bello, che è esso stesso parte del “linguaggio” dello spirito. La bellezza, come osservava il filosofo Jacques Maritain, “appartiene all’ordine trascendentale e metafisico. È per questo che tende di per sé a descrivere l’anima oltre il creato… Nel momento in cui si tocca il trascendente, si tocca l’essere stesso, una somiglianza a Dio, un assoluto, che nobilita e allieta la nostra vita; si entra nel campo dello spirito. È degno di nota che gli uomini possano davvero comunicare l’uno con l’altro solo attraverso l’essere o una delle sue proprietà. Solo in questo modo sfuggono dall’individualità in cui la questione li rinchiude. Se restano nel mondo dei loro bisogni sensibili e degli ego sentimentali, si raccontano invano a vicenda le loro storie…” (Arte e Scolastica, capitolo V, “Arte e Bellezza”).
Il bello, però, non è lo stesso del “piacevole”, del superficialmente “gradevole” o dell’“emotivamente confortevole”. Per penetrare attraverso la nube di quelli che Maritain definisce i nostri “bisogni sensibili ed ego sentimentali”, la bellezza deve spesso provocare e metterci a disagio. Nella sua Lettera agli Artisti del 1999, il beato papa Giovanni Paolo II sottolineava che nella nostra cultura umanistica sempre più secolare l’arte e la fede si sono allontanate, “almeno nel senso di un diminuito interesse di molti artisti per i temi religiosi” (n. 10). L’arte, “anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose, quando è autentica, ha un’intima affinità con il mondo della fede, sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l’arte continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l’esperienza religiosa. In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, essa è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero” (idem). “Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione”.
L’ultimo punto del beato Giovanni Paolo II è fondamentale: lo spirito umano e il suo desiderio universale di redenzione può essere affrontato anche quando vengono rappresentati gli aspetti più inquietanti del male. Alcuni dei nostri migliori artisti cattolici hanno riconosciuto che quanto più il mondo arriva a respingere Dio con un’autoaffermazione sempre maggiore, tanto più l’artista deve “dare un nome” al male dal quale il mondo moderno è schiavizzato. “Il poeta e il romanziere non possono donare la vita, ma possono indicare esempi della sua perdita, e poi nominarli e registrarli”, scrive Walker Percy in uno dei suoi saggi (“Novel-Writing in An Apocalyptic Time”). Flannery O’Connor elabora lo stesso tema in uno dei suoi saggi: “Il romanziere con preoccupazioni cristiane troverà nella vita moderna distorsioni che lo ripugnano, e il suo problema sarà farle apparire come distorsioni a un pubblico abituato a considerarle naturali; e può essere costretto a prendere misure sempre più violente per far arrivare il suo punto di vista a questo pubblico ostile. Quando si può presumere che il pubblico abbia le proprie convinzioni, ci si può rilassare un po’ e usare modi più normali per rivolgersi ad esso; quando si deve presupporre che non sia così, allora bisogna rendere chiaro il proprio punto di vista con uno shock – al duro d’orecchi si grida, al cieco si disegnano figure grandi e forti” (“The Fiction Writer and His Country”).
I cattolici non dovrebbero quindi respingere categoricamente quelle opere d’arte che rappresentano la violenza, la sessualità illecita e altre forme di comportamento crudo e peccaminoso, perché questo è il materiale del dramma dell’anima che lotta per la redenzione. Ad ogni modo, tutto dipende da come viene rappresentato questo peccato. La violenza, anche quella estrema, può essere ritratta senza essere “pornografica” nel suo proposito. La famosa storia di Flannery O’Connor “A Good man is hard to find” culmina con un serial killer che uccide un’intera famiglia, compreso un bambino – anche se tutti gli omicidi tranne uno avvengono “dietro le quinte”. Il motivo della rappresentazione di questi omicidi è preparare un momento di trasformazione spirituale nel protagonista della storia. Confrontiamo questo approccio con quello di un regista che vuole semplicemente eliminare dal suo pubblico lo shock superficiale e rifuggire da primi piani di scene sanguinose. La sceneggiatrice di Hollywood Barbara Nicolosi misura così la distinzione tra questi due approcci: “La rappresentazione del male nell’arte diventa un problema quando le azioni malvagie rientrano nell’ambito di quello che Aristotele, nella sua Poetica, definisce ‘spettacolo’. Lo spettacolo è il sesto e più basso elemento nella gerarchia degli elementi della storia. È la risposta alla domanda ‘Cosa rende quest’opera affascinante o piacevole – soprattutto ai sensi – per il pubblico?’. Se la risposta a questa domanda è ‘il modo cruento in cui la vita è stata espulsa da un corpo umano’, allora bisogna rendere la sofferenza umana il proprio spettacolo. Ciò suscita dei problemi…e come ha sottolineato l’etica personalista del beato Giovanni Paolo II, non è mai legittimo usare un essere umano in nessun modo per alcuno scopo. Nelle arti, quindi, non possiamo utilizzare la sofferenza di un altro essere umano per divertimento”.
Consideriamo anche come viene ritratto il sesso. Walker Percy deplorava la pornografia, ma credeva che gli spettasse, in quanto romanziere, ritrarre il sesso occasionale come parte della “morte nella vita” dell’uomo moderno. In uno dei suoi saggi, Percy scrive: “La vera patologia [circa l’uomo moderno] non è tanto un declino morale, che è un sintomo, non un fenomeno primario, ma piuttosto un impoverimento ontologico, ovvero una grave limitazione o un invalidamento della vita stessa dell’uomo del XX secolo. Se è questo il caso e se questo invalidamento e impoverimento si manifesta spesso nel comportamento sessuale, quest’ultimo diventa il campo del romanziere serio” (“Diagnosing the Modern Malaise”).
Ovviamente, bisogna sempre discernere alla luce di opere particolari. Ci sono linee guida generali su quale sia l’eccesso del comportamento peccaminoso nel ritratto artistico. Se, ad esempio, un’opera d’arte, ritraendo un comportamento peccaminoso, critica in qualche modo il peccato che rappresenta, allora c’è almeno una ragione provvisoria per impegnarsi in quell’opera. Al contrario, un romanzo o un film potrebbe offrire una critica dei protagonisti che ritrae, ma se facendo questo rappresenta in maniera eccessiva dei comportamenti volgari, o li presento in un modo tale che, come sottolinea la Nicolosi, ne fa uno spettacolo, la chiarezza e la forza della critica morale dell’opera vengono sminuite. Nulla può sostituire la prudenza in tali questioni, e a volte le linee di discernimento possono diventare assai sottili.
“L’arte – conclude la Nicolosi – avrà sempre bisogno dei sette vizi capitali. Il peccato è l’essenza del problema umano con cui l’arte sta lottando. La sfida è rappresentare il peccato in un modo che non sia occasione di peccato”.