Qualche giorno fa mio figlio mi ha sorpreso con una domanda secca: "Come faccio a capire la mia vocazione?". Questi fulmini a ciel sereno capitano sempre dopo cena, quando il genitore ha la batteria mentale esausta. Ho balbettato qualcosa, però è stata quest'eco nella memoria recente a farmi soffermare su una notizia, spulciando ieri tra le testate.
Non è un fatto di stretta attualità, piuttosto una presenza di lunga durata nata da un imprevisto. E' la storia di Luigi Bellini, biologo napoletano, che partì alla volta del Madagascar per fare degli studi su un certo tipo di rettili e poi rimase lì a costruire ospedali.
Vocazione, forse, non è solo ascoltare qualcosa che grida dentro, ma lasciarsi colpire da qualcosa che la realtà manifesta. Un'ipotesi non messa in conto che pure diventa un'urgenza imprescindibile. (Qualcuno dentro la realtà ci chiama).
Dalla ricerca alla missione
Per me il Madagascar resta la terra dei lemuri del famoso e bellissimo cartone animato, ma - facile da immaginare - è un luogo anche pieno di serpenti. Tra loro, una rara specie di Chalcides. Proprio per studiare questa specie di rettili, Bellini, biologo dell'università di Napoli, lasciò le aule e partì alla volta del Madagascar negli anni '90.
Di quel serpente non trovò traccia, ma si trovò di fronte a un dato, umano più che strettamente biologico, sconcertante.
Cosa accade quando ci lasciamo mettere in discussione dai fatti? Come capire se una scelta è giusta? Cosa permette di fare un passo rischioso verso un'ipotesi di vita tanto incognita?
Tre anni di discernimento, per poi muoversi da inerme. Colpisce, molto. In fondo è quell'azzardo che fece fare un salto a Ulisse oltre le Colonne d'Ercole. Non aveva i remi adatti a navigare nel mare aperto oltre Gibilterra, eppure sentiva che una risposta definitiva alla vita c'era solo oltre il noto del Mediterraneo. Il fallimento e la morte sono messi in conto, suppongo. Eppure si va e non da soli. Come Ulisse, è una compagnia piccola di amici a non rendere tutto solo una fissazione monomaniacale.
Non mi trovo molto in sintonia con John Lennon, ma una sua frase famosa coglie davvero nel segno per spiegare, forse al di là delle intenzioni del cantante, cosa sia la vocazione:
Bellini faceva ricerche nell'ambito della biologia e si è trovato a dedicarsi a una missione. Sappiano noi accorgerci di Chi ci chiama mentre - come Marta - siamo affaccendati sui nostri progetti?
Opere che fioriscono
Quel centro di diagnostica è stato inaugurato nel 2005 e ci lavorano suore, tecnici e medici malgasci formati in Italia. A loro si aggiunge il contributo dei volontari. Il passo successivo alla diagnostica è quello di costruire un ospedale vero e proprio. Nel 2009 viene intrapresa la realizzazione di un vero Policlinico multidisciplinare di 100 posti letto, modernamente progettato e tecnicamente dotato delle essenziali attrezzature necessarie ad una moderna medicina.
Queste opere vengono coordinate dalla Next Onlus che è nata per sostenere l'intuizione iniziale di Bellini ed è via via cresciuta nel tempo. Anche il contributo della CEI è stato fondamentale affinché quest'ospedale vedesse la luce.
E visto che la carità tutto spera e la provvidenza è maestra di moltiplicazioni inaspettate, la storia di questa missione si arricchisce di un altro tassello.
Gli altri sono il legame con noi stessi
La curiosità di leggere e approfondire questa storia è stata innescata da mio figlio. Quando andrò a riferirgliela, immagino già una sua domanda: ma poi il bello di una vocazione si misura in base a ciò che si è fatto? Sarebbe facile chiudere il cerchio su questa storia, e altre simili, misurando tutto sulla bilancia di ciò che si è prodotto. La trama la conosciamo: l'intuizione folle, il rischio, le critiche degli altri e poi il successo. No, il punto non è essere degli eroici visionari, controcorrente e poi degni di applauso.
Vocazione è ascoltare una chiamata, e se Qualcuno chiama è per mettersi in relazione con noi. E in un breve video disponibile su Facebook Luigi Bellini sposta tutto il senso della sua opera dal fare al presente del rapporto con gli altri.
Per arrivare al nostro io dobbiamo fare un giro lungo che passa dall'immersione, immedesimazione, compassione ... con gli altri. Siamo davvero all'opera non quando ci sentiamo dei bravi benefattori per l'umanità, ma quando ci rendiamo conto che dentro le nostre tantissime specie di costruzioni c'è la nostra voce più sincera che grida il bisogno di conoscersi.