A 33 anni, l'attrice messicana Teresa Ruiz ha dietro di sé una lunga carriera artistica, in cui ha lavorato con successo in tutti i settori: televisione, teatro e cinema.
È stato questo il suo impegno con l'arte come atto di redenzione, che si è unito al progetto del produttore e coprotagonista de “Il miracolo di padre Stu”, Mark Wahlberg, con cui condivide la maggior parte delle scene.
Come si sa, la storia è basata su fatti reali e contiene spunti molto interessanti. Diretta dalla giovane debuttante Rosalind Ross e distribuita nei cinema dalla Sony con il sostegno promozionale di Bosco Films, la pellicola è uscita nelle sale il 13 maggio. Aleteia è riuscita a parlare con la simpatica interprete.
Perché ha deciso di partecipare a una produzione come questa?
Perché la storia è molto bella, e credo che non si facciano più film con questo tono. Ora ce ne sono moltissimi con grandi dosi di azione o le cui storie sono un po' più oscure, no?
Sento che ci sono ben poche sceneggiature che parlano della vocazione umana, della grandezza dell'essere umano, e io volevo far parte di una storia come quelle che vedevo con i miei genitori quando ero bambina.
Quessto film mi ricorda un po' pellicole come Vi presento Joe Black o Un sogno per domani. Sento che sono film ispiratori che non si dimenticano col passare degli anni.
Cosa conosceva della storia de “Il miracolo di padre Stu”?
A dire il vero niente. Dopo aver finito di leggere la sceneggiatura, ho verificato che era basata sulla vita reale, e mi ha sorpreso molto piacevolmente. La narrazione è poi abbastanza fedele alla storia originale. C'è solo qualche momento più comico o drammatico per rafforzare certe scene.
Cosa l'ha colpita del suo personaggio?
Carmen mi è piaciuta molto. È una ragazza onesta e dal cuore puro, che ha la capacità di trasformarsi, di perdonare, di cambiare quello in cui crede. Mi piacciono molto i personaggi di questo tipo. Venivo da fare cose come “Narcos”, ovvero un lavoro in cui si parlava di un altro aspetto dell'essere umano, ma ne “Il miracolo di padre Stu” sono riuscita a esplorare questa luce e questa bontà con cui a volte ci è tanto difficile entrare in contatto.
Ha riferimenti di altri casi di conversione come quelli di questo film?
No. Alla fine del film c'è un testo che mi emoziona sempre molto. È quello che ha a che vedere con l'autentico padre Stu, che dice: “Attraversiamo tutti questi processi di trasformazione, ma nel suo caso è stato un esempio estremo”.
Queste parole sono bellissime, perché in effetti ci sono esempi di situazioni limite che vale la pena di accentuare e valorizzare al cinema. È la strada di tutti, no? Tutti dobbiamo trasformarci, e tutti dobbiamo diventare esseri umani migliori, per essere felici e far parte di una comunità che vive in armonia.
La persona che interpreta si è messa in contatto con lei, o magari è stata lei a contattarla?
No, non l'abbiamo mai incontrata. Ho chiesto al riguardo, e Mark Wahlberg mi ha passato un breve audio in cui Stuart dice che aveva una fidanzata, che era una messicana molto dolce, molto carina, e che non voleva lasciarla. Per lui è stato uno degli ostacoli più grandi, avrebbe voluto crearsi una famiglia, ma poi ha trovato la sua vocazione da un'altra parte. Partendo da quella descrizione, abbiamo iniziato a creare il personaggio.
Come crede che reagiranno gli spettatori quando vedranno il film?
Ho visto il film con molta gente che non conoscevo, e riso e pianto affioravano in parti uguali. Poi sono andata con i miei amici – non vogliono andarci senza di me –, e tutti sono rimasti toccati dal film. Li ha fatti pensare: “Non si fanno più film che parlano di fede, di amore per la famiglia”, mi dicono. Il fatto è che “Il miracolo di padre Stu”, dallo spiccato tono commerciale, sa combinare molto bene tutte le emozioni. È un film ispiratore.
Cosa rappresenta per lei la famiglia?
Mi ha dato tutto il sostegno possibile per diventare attrice. Ogni 10 maggio vado a trovare mia madre. L'unica cosa che mi importa è che la mia famiglia stia bene, che siano sani e orgogliosi di me. Credo che molti Messicani, Latinoamericani e Iberoamericani abbiano un legame molto forte con la propria famiglia, perché è lì che inizia tutto.
Cos'ha imparato in tutto questo processo?
A confidare molto. Ho imparato a confidare molto nel fatto che la vita è piena di persone buone, nonostante alcuni elementi di dispiacere, come il fatto che il film sia stato girato in epoca di pandemia. Tutta l'équipe intorno a me mi ha tuttavia assicurato che sarebbe andato tutto bene. E devo riconoscere che è stato così, mi hanno dato molto affetto e mi hanno trattato con grande rispetto. Tutto questo ribadisce per me che nell'industria cinematografica c'è moltissima bontà.
Com'è stato lavorare con Mark Wahlberg?
È il migliore in quello che fa. E una persona dolce e generosa. Tutta l'équipe è parte della sua famiglia. Spesso la paragono a una buona squadra di calcio, in cui tutti sanno fare goal. Mi sono sentita così ne “Il miracolo di padre Stu”, in cui i passaggi con la palla sono perfetti e l'esperienza cinematografica diventa molto semplice.
La regista le ha dato qualche indicazione concreta per interpretare il suo personaggio?
Ci ha dato un'enorme libertà di fare quello che volevamo, di proporre idee... Faceva solo qualche aggiustamento se era davvero necessario per migliorare quello che era già preparato. È una persona intelligente, osservatrice, che ascolta e sa molto bene che tipo di storia vuole raccontare.
Come si può trasmettere la fede?
In questo film ho imparato anche questo. Il mio personaggio ha una fede incrollabile. Mentre leggevo la sceneggiatura mi chiedevo: “Come si arriva a questa fede?” Per questo, interpretare questo personaggio ha rappresentato per me una grande sfida. La prima cosa che ho fatto è stata cercare di comprendere meglio la mia fede per poterla trasmettere a Stu e far sì che non risultasse un atto violento, tenendo conto del fatto che era ateo.
Qual è la sua opinione sui miracoli del XX secolo, come i due che appaiono nel film?
Il grande miracolo è essere qui dopo una pandemia orribile, in cui per fortuna non ho perso alcun familiare. E anche il fatto che dopo un anno è mezzo sia potuto uscire “Il miracolo di padre Stu”.