Questo 9 maggio era atteso dal mondo (o almeno dai Paesi che osservano con crescente angoscia la crisi in Ucraina) come quello in cui – secondo la promessa propagandistica dell’aggressore – tutto sarebbe stato alle spalle.
L’aspettativa si sarebbe rivelata sicuramente fallace, nel lungo periodo, perché nessuna pace duratura e stabile può costruirsi sulla sopraffazione e sull’ingiustizia… ma nel breve periodo tutti ci saremmo consolati della cessazione delle esplosioni, delle notizie cruente, e tutti avremmo volentieri partecipato alla consolante espiazione della ricostruzione.
Invece niente. Lo scontro si fa tanto più aspro quanto più le forze in campo sono allo stremo, e sembra anzi che puntino ciascuna a resistere anche solo pochi istanti più dell’avversaria. Gli inviti alla pace sono a loro volta tanto più disattesi quanto più restano l’unica prospettiva sostenibile nel lungo periodo, e ogni pallottola esplosa ne respinge un po’ più in là il miraggio.
Il mondo a sua volta sorride amaramente dell’inefficacia delle “armi spirituali” nel conseguire ciò che le munizioni belliche faticano a conquistare: il Papa ha consacrato Russia e Ucraina al Cuore Immacolato di Maria, i cattolici stanno facendo la comunione riparatrice ogni primo sabato del mese e tutti vorremmo vedere un deus ex machina che – in qualsiasi modo – fermi il massacro (quello su cui siamo concentrati… anche se ce ne sono molti altri dei quali ci disinteressiamo).
Lo sconforto e la desolazione del momento assomigliano a quelli descritti da Thérèse de Lisieux nelle sue ultime parole mortali, il 30 settembre 1897:
Facciamo fatica a collocare queste parole nel giusto contesto, perché la giovane carmelitana bretone che moriva di tubercolosi sul morire del XIX secolo aveva avuto cura di sfruttare le proprie sofferenze per espirare i peccati altrui e proprî, per bruciare le proprie imperfezioni personali e così perfezionare gli abiti virtuosi a cui la sua natura era disposta. Una concezione sideralmente lontana dalla nostra, spesso cripto-pagana, per cui un Dio e una religione hanno senso se e nella misura in cui risolvono (per di più estrinsecamente, ossia senza nostro coinvolgimento personale) i nostri più o meno piccoli problemi particolari.
Ho invece ritrovato un approccio simile a quello di Thérèse nel racconto di Elena Musso (il secondo “Sul cammino delle rose”) su come abbia scoperto e vissuto la “novena delle rose” per una signora che viveva la sua agonia.
Da bambina anche Thérèse era stata beneficata di una guarigione miracolosa, mentre nella malattia finale non fu per il miracolo che la monaca pregò e chiese preghiere, bensì per la grazia della perseveranza e perché tante sofferenze andassero ben finalizzate: così pure Elena Musso ha pregato la “novena delle rose” per la sua amica, ed è stata consolata nel poter credere che Thérèse ne avesse accompagnato l’esodo dal pellegrinaggio terreno.
Ed ecco che la domanda ci aiuta nel rimettere a fuoco il senso della preghiera cristiana, la quale non punta affatto a non essere esaudita, ma chiede di essere coinvolta nell’edificazione del Regno di Dio, le cui opere sono talvolta visibili in questo mondo, talaltra invisibili, sempre e comunque trascendenti i suoi angusti confini.
In questo 9 maggio, che ha visto deludere una volta di più le aspettative (mal) riposte nelle promesse di uomini senza scrupoli e senza onore, abbiamo una pista da seguire, nel nostro piccolo (che poi è il seme da cui si attende la messe del Regno): iniziare la novena delle rose per la buona finalizzazione dei tanti mali del mondo, e soprattutto per la nostra conversione e santificazione.