«Vogliamo tutto». E’ il titolo di uno dei resoconti che più ci ha colpito sul Sessantotto.
La mostra ed il relativo convegno si svolsero nel 2018 al Meeting di Rimini, ne parlammo anche noi riprendendo il giudizio dei tre storici invitati in quell’occasione: Eugenio Capozzi, Giovanni Orsina ed Edoardo Bressan.
Una lettura di quegli anni come una ribellione antropologica, una protesta sulla mancanza del senso della vita e la frustrazione verso un moralismo soffocante. L’ideale dei giovani del Sessantotto fu legittimo e allo stesso tempo disperato: lo smarrimento esistenziale.
Questo sguardo inedito sul Sessantotto è emerso anche in un recente articolo, attribuendolo a Pier Paolo Pasolini. Prima entusiasta, poi critico, Pasolini celebrò solo “il Sessantotto degli inizi” come ricerca di un senso della vita.
Nella nostra intervista del venerdì abbiamo dialogato su questo una delle responsabili della già citata mostra del Meeting del 2018, la prof.ssa Maria Bocci, ordinario di Storia contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.
I cattolici ed il Sessantotto: contributo e spirito iniziale.
DOMANDA – Prof.ssa Bocci, solitamente in ambito cattolico il giudizio sul Sessantotto non è positivo per diversi (e giustificati) motivi. Nella mostra del 2018 avete però definito l’origine delle proteste come una «istanza di autenticità rivendicata dai giovani». A cosa vi riferite?
RISPOSTA – In ambito cattolico il Sessantotto è stato valutato molto diversamente: se alcuni ne sottolineano gli aspetti e gli esiti negativi, per altri è stata un’occasione importante, originata da spinte ideali notevoli e da un nuovo approccio all’esistenza umana, non esclusa – in alcune esperienze e in alcuni momenti – la dimensione religiosa.
Qualcuno ha persino parlato di apertura rinnovata al trascendente, cogliendola in diversi filoni della mobilitazione giovanile di fine anni Sessanta.
In effetti, se si guarda alla genesi della contestazione giovanile, si può parlare di esigenza di «autenticità», a livelli differenti ma collegati fra loro, da quello esistenziale a quello sociale, un’esigenza che si coglie in diverse componenti che hanno animato il ’68. Sono considerazioni che la storiografia negli ultimi anni ha avvalorato, scoprendo, tra l’altro, il contributo che al Sessantotto è arrivato dalla componente cattolica.
DOMANDA – Quale fu il contributo cattolico al Sessantotto?
RISPOSTA – Fino a poco tempo fa la componente cattolica era piuttosto sottovalutata e ci si limitava a constatare che la contestazione ha travolto la gioventù cattolica, perché i ragazzi di estrazione cattolica si sono inseriti nel Sessantotto di tutti, spesso annegando nella nuova sinistra la propria tensione religioso-sociale.
Oggi questo approccio è stato messo in discussione da studiosi che hanno ricostruito il percorso dei ragazzi appartenenti ad associazioni e a realtà studentesche cattoliche, europee ed italiane, rilevando che sono arrivati al ’68 dopo aver compiuto un cammino iniziato nella seconda metà degli anni Cinquanta e che la loro mobilitazione era favorita da specificità peculiari, precedenti il Concilio e poi potenziate nel clima del post-Concilio, pur essendo collegate ai sintomi del disagio giovanile più ampiamente diffusi.
Il Sessantotto, quindi, non ha solo influito sul mondo cattolico, ma è stato preparato dalle dinamiche dell’associazionismo giovanile cattolico e dalla mobilitazione degli studenti delle università cattoliche nei decenni precedenti, perlomeno in Italia e in diversi paesi europei. Qualche storico ha anzi sottolineato il ruolo di avanguardia degli studenti cattolici e la scarsa presenza di ragazzi non cattolici nelle tensioni che coinvolgono gli studenti prima del ’68.
Insomma, ancor prima dei loro compagni, i ragazzi cattolici hanno vissuto gli anni Sessanta come un anticipo di contestazione, risentendo di aspirazioni antiborghesi collegate a un nuovo protagonismo generazionale e a una vocazione antiautoritaria che era declinata sia in ambito ecclesiale, sia a livello sociale.
Nel 1968 hanno aderito a prospettive e metodi tipici della contestazione, ma hanno anche continuato a esprimere punti di vista peculiari, potenziando la critica alle istituzioni cattoliche e all’associazionismo da cui provenivano, ma portando in dote alla mobilitazione globale un contributo di idee e aspirazioni meno vincolato a una genesi di tipo politico, come era il caso, invece, di altre componenti della contestazione che erano più contigue agli organismi giovanili della sinistra.
Se il desiderio di «autenticità» era una della molle della contestazione di tutti, i ragazzi cattolici lo hanno interpretato con particolare intensità: lo si percepisce nella tensione religioso-esistenziale e nel bisogno di rapporti sociali significativi e autenticamente comunitari, nella propensione a «vivere le dimensioni del mondo» – un mondo che doveva essere più «giusto», basti pensare agli impulsi terzomondisti – e nell’impellenza a verificare se ciò che era indicato in sede autorevole fosse davvero all’altezza della proprie aspirazioni individuali e comunitarie.
Anche il bisogno di «partecipare» in prima persona (al percorso formativo, alle scelte che investivano la vita personale e collettiva, ai travagli del mondo contemporaneo) ha a che fare con l’esigenza di autenticità, declinata non solo individualmente ma alla luce di una tensione solidaristica che trovava un fondamento proprio nell’ispirazione religiosa.
Era una sfida impegnativa lanciata al mondo degli adulti, una sfida che gli adulti hanno faticato a raccogliere, a volte illudendosi che gli approcci tradizionali – sia pure ritoccati a contatto con la crisi giovanile – potessero far fronte all’emergenza. Credo che il Sessantotto abbia messo in luce un problema di fondo che le agenzie educative dell’epoca, non escluse quelle cattoliche, non sempre sono state in grado di affrontare.
Come si perse l’iniziale desiderio di autenticità del ’68.
DOMANDA – Nell’articolo su “Il Secolo XIX” si cita il pensiero di Pasolini, favorevole al “Sessantotto degli inizi”: una trasgressione morale anticonsumistica ed insofferente al secolarismo, alla ricerca di un nuovo senso della vita. Si ritrova in questo giudizio? Che differenza ci fu tra il Sessantotto degli inizi e quello della fine?
RISPOSTA – Se si considerano i cambiamenti dell’universo giovanile tra anni Cinquanta e Sessanta, si capisce che il Sessantotto ha accelerato un processo avviato nella società occidentale dalle conseguenze socio-culturali del boom economico.
In realtà il problema è più antico e più ampio: non solo il Sessantotto, ma le ideologie del Novecento si sono confrontate con i timori suscitati dalla modernizzazione e dalla prospettiva di un universo dominato dalla tecnica disumanizzante.
Per reazione, si sono mosse alla ricerca di una modernità «diversa», che si è strutturata in progetti politici massimalisti di diverso segno. Ciò significa che la contestazione giovanile riproduce, a suo modo, le angosce innescate dal processo di modernizzazione che hanno caratterizzato la storia europea nell’ultimo secolo.
Non per niente, nei giovani sessantottini tornerà la visione apocalittica e schematica tipica del sovversivismo di inizio Novecento, che rifiuta il riformismo e approda alla violenza come «levatrice» della storia. La novità degli anni Sessanta è che la ribellione contro la civiltà della produzione e del consumo si innesca dentro quella stessa società consumistica che viene rifiutata in nome della lotta contro l’alienazione di massa.
Come scrive Angelo Ventrone, la mobilitazione giovanile si basa su ciò che rifiuta: la società dei consumi, ormai capace di fornire una tale abbondanza di beni da riuscire a garantire la sopravvivenza dei giovani che la contestano.
Il desiderio di autenticità è rimasto impigliato in questo cortocircuito, che alla lunga ha fatto prevalere le istanze di liberazione individuale sull’obiettivo della giustizia sociale, paradossalmente con la complicità di quello «spirito borghese» che i giovani sessantottini contestavano con accanimento.
Il Sessantotto sfida ancora il presente e gli educatori.
DOMANDA – Conosciamo tutti gli esiti negativi di quella rivoluzione (individualismo, consumismo, libertinismo). Esistono, secondo lei, anche risvolti positivi per la società? In generale, oggi cosa rimane del Sessantotto?
RISPOSTA – Credo che dopo il Sessantotto non si possa più essere educatori, genitori o professori come si poteva esserlo prima.
In questo senso, la contestazione mi sembra uno stimolo interessante con cui fare i conti quotidianamente, proprio a partire dal desiderio di autenticità dei ragazzi di allora, che poi è il fattore senza il quale un rapporto educativo non può essere significativo, e non solo dal punto di vista di chi viene educato, ma di chi deve educare il quale, a sua volta, deve essere autentico per essere credibile.
Tanto è vero che di fronte a ragazzi che oggi apparentemente sembrano sentir meno questo desiderio (o che forse lo manifestano in modo diverso) chi ha il compito di educarli se ne lamenta.
Il Sessantotto ha almeno in parte messo sotto i riflettori quel «punto infuocato» che al fondo ci costituisce e che è imprescindibile per chi voglia fare un cammino umano, sebbene poi l’abbia declinato – a causa dell’immediatismo e della pretesa di un compimento completo e istantaneo, che salta le fatiche della storia individuale e collettiva – in modi di essere e di esprimersi che si sono rivelati fragili, se non fallimentari.
Anche dal punto di vista della famiglia si potrebbe dire altrettanto, sebbene il cambiamento sia iniziato prima, perché il Sessantotto ha accelerato processi già avviati nella società occidentale.
Sta di fatto che, come ha ricordato Benedetto XVI, ogni generazione è un nuovo inizio: i ragazzi del Sessantotto hanno fatto il loro tentativo, ma oggi tocca a noi capire come affrontare in maniera non fallimentare il tempo che stiamo vivendo. Non credo sia utile né possibile riproporre schematicamente ricette del passato; semmai è da capire se il passato può offrire spunti interessanti per affrontare in modo nuovo le sfide del presente.