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Ucraina: il Vaticano in acque torbide e insidiose 

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Papa Francesco saluta un gruppo di soldati ucraini. Piazza San Pietro, 23 maggio 2018.

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Jean-Baptiste Noé - pubblicato il 21/04/22
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Come tutte le potenze diplomatiche, la Santa Sede interviene nella guerra in Ucraina per tentare di tracciare piste verso la pace. Jean-Baptiste Noé, autore di “Géopolitique du Vatican” (PUF 2015), spiega la diplomazia vaticana: la Santa Sede è imparziale, non neutrale, e fa distinzione fra popoli e Stati. Il conflitto russo-ucraino, però, è molto particolare per via dell’intreccio serrato di fattori politici e religiosi.

Fin dall’inizio del conflitto tra la Russia e l’Ucraina, la Santa Sede si è tenuta in una posizione che è tradizionalmente la sua in caso di guerra: imparziale ma non neutrale. “Imparziale” nel senso che il Vaticano non prende posizione per alcuna delle parti: non si schiera con Kiev o con Mosca. Tuttavia non è “neutrale”, perché s’impegna nel conflitto prendendo posizione per la pace e per una giusta risoluzione della guerra, cosa che esprime prendendo pubblicamente posizione e intervenendo sul posto. 

Questo posizionamento è stato evidenziato in particolare nella via Crucis del Venerdì Santo al Colosseo: la tredicesima stazione ha visto la potente immagine di due donne, una ucraina e una russa, camminare fianco a fianco portando la medesima croce (donde l’imparzialità) in un appello alla fine dei combattimenti e per la costruzione di una pace giusta e durevole (non neutralità). 

Una diplomazia della preghiera 

Questa azione testimonia altresì una specificità peculiare della Santa Sede: la fede. La pace si ottiene certamente mediante il negoziato e la diplomazia, ma anche attraverso la preghiera: i mezzi soprannaturali devono sempre andare di pari passo con quelli umani. La via Crucis non è un’azione politica, ma spirituale. 

Come il giorno di digiuno in favore della pace richiesto dal Papa e, più spettacolare ancora, la consacrazione dell’Ucraina e della Russia al Cuore Immacolato di Maria. Sono i due paesi ad essere stati consacrati, con una preghiera di supplica e di affidamento che era già stata fatta da Pio XII e Giovanni Paolo II. 

Questa dimensione spirituale della diplomazia della Santa Sede sfugge a troppi osservatori, i quali restano su una logica puramente umana. Tutti i papi hanno accompagnato la propria diplomazia con pellegrinaggi, messe, preghiere, uomini del Vaticano investiti di missioni diplomatiche ma che non per questo smettevano di essere preti, anzi. La Santa Sede apporta dunque la propria specificità e la propria singolarità: l’arma della preghiera e della fede. Omettere questo significherebbe sfilare di fianco all’essenziale e alla natura stessa della diplomazia pontificia. 

Una linea di cresta 

In parallelo coi mezzi soprannaturali, i mezzi umani. Quelli umanitari anzitutto: il Papa si è appoggiato a due cardinali mandati come inviati speciali, i quali hanno pilotato il progresso dell’aiuto umanitario alla frontiera polacco-ucraina per apportare assistenza ai rifugiati. E poi quelli diplomatici: ripetuti appelli alla pace, conversazioni telefoniche col patriarca di Mosca e con quello di Kiev, attivazione della diplomazia vaticana per trovare piste di negoziato. Ufficialmente, non ci sono stati contatti con Vladimir Putin. 

La Santa Sede si è sempre guardata, al momento, dal condannare la Russia e dal prendere posizione con l’Ucraina. Non che questo giustifichi l’invasione, poiché anzi essa la giudica illegittima e ha riprovato l’attacco contro l’Ucraina. Fa però sempre una distinzione fra governo e popolo, nazione e governanti. Se ci sono dei responsabili, anche di crimini di guerra nella fattispecie, si tratta dei responsabili dei crimini, non del popolo russo. 

La Santa Sede rifugge la linea moralizzatrice che punta a inglobare tutti i Russi nella responsabilità dei massacri. Donde il suo rifiuto di condannare atleti o musicisti russi. La Santa Sede è pure convinta che non sia incalzando un avversario a trincerarsi e chiudendogli ogni porta di negoziato e di uscita che si risolve un problema. Si pensi di Vladimir Putin quel che si vuole, bisognerà necessariamente negoziare con lui se controlla una parte del territorio ucraino. Umiliare l’avversario e tagliare tutti i contatti non è mai una buona cosa. Questa è la linea fedele di papa Francesco sulla “diplomazia dell’incontro” e della misericordia. 

Vedere più in là del momento presente 

In una guerra in cui ogni sottigliezza viene meno, in cui a ciascuno si intima di scegliere un campo e di essere totalmente per una delle parti e totalmente contro l’altra, è difficile restare saldi su questa linea di cresta. Ancora di più dal momento che nel caso del conflitto ucraino è implicata la questione religiosa tra ortodossi legati a Mosca o a Kiev e greco-cattolici fedeli a Roma. 

L’iniziativa della via Crucis è stata vivamente condannata dall’Ucraina, per esempio, sia dal governo mediante l’ambasciatore presso la Santa Sede sia mediante le autorità religiose: hanno ritenuto che mettere fianco a fianco una donna russa e una donna ucraina consisterebbe nel mettere sullo stesso piano l’aggressore russo e l’aggredito ucraino e nel negare la responsabilità della Russia. Quel che sarebbe dovuto essere un momento di preghiera e di fraternità universale è dunque diventato motivo di discordia e di separazione. 

Eppure papa Francesco è fedele a sé stesso nel suo rifiuto di ergere muri e di partecipare alla «guerra mondiale a pezzi». L’azione diplomatica della Santa Sede sta anche nel preparare la ricostruzione del dopo-guerra: quella dell’Ucraina e quella dell’Europa. Il che dovrà fondarsi su una pace giusta, sulla riconciliazione e sul rispetto del diritto internazionale. Parole forse irricevibili in tempo di guerra, ma che la Santa Sede insiste nel mettere avanti fin d’ora, perché non si arrivi a una pace armata che potrebbe solo essere l’anticamera di nuove guerre. 

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio] 

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