di Alessandra Fabbretti
FREETOWN (SIERRA LEONE) – “Dopo essere stato liberato dai ribelli, per anni ho covato una gran rabbia e non avevo voglia di parlare con nessuno. Ma quando finalmente sono riuscito a raccontare la mia storia, la mia vita è cambiata e ho capito che aiutare gli altri era la mia strada. In Sierra Leone ci sono tantissimi bambini che non hanno i genitori, una famiglia che li guidi, e con Avsi facciamo questo: sostenerli”. In una intervista con l’agenzia Dire Paul Tamba Jimmy non pronuncia mai la parola “ex bambino soldato”, perché anche solo nominare l’esperienza che ha vissuto da bambino è sgradevole.
Lo incontriamo nella sede di Freetown della Fondazione Avsi, ong italiana, che dalla fine della guerra civile nel 2001 fornisce sostegno psico-sociale ai minori. Jimmy oggi lavora per l’organizzazione come coordinatore del progetto Sostegno a distanza (Sad), una professione a cui è approdato dopo un lungo percorso di recupero. Ad aiutarlo, padre Berton, missionario dell’ordine dei Saveriani tra i primi a preoccuparsi di reintegrare in società i bambini ex combattenti della guerra civile durata dal 1990 al 2001.
Undici anni questi, in cui i ribelli del Revolutionary united front (Ruf), disposti a tutto per prendere il controllo dei giacimenti d’oro e diamanti, rapirono non meno di 40mila minori da usare come miliziani. Un evento che a 21 anni di distanza mostra ancora tutte le sue ferite in una generazione spezzata e nel serio ritardo del sistema economico, educativo e sanitario in cui versa il Paese, tra più poveri dell’Africa occidentale. All’epoca, Jimmy aveva 11 anni: “Ero in vacanza a casa di alcuni zii quando degli uomini rapirono me e altri ragazzi” racconta. “Dato che parlavo la lingua di quell’etnia fui messo nel reparto comunicazione, trasmettevo i messaggi delle unità combattenti e intercettavo quelli dell”esercito”. Una posizione che gli ha risparmiato gli scontri a fuoco ma non il trauma.
“Dopo due anni e mezzo fui liberato, ma stavo molto male. Poi padre Berton iniziò a prendersi cura di me. Avevo 15 anni. Mi propose di vederci ogni giorno per fare lunghe chiacchierate su temi leggeri, solo per riabituarmi a comunicare. Dopo qualche tempo mi diede un altro esercizio: sforzarmi di ascoltare gli altri, perché, mi disse, guarire comportava anche accorgersi di chi c’è intorno a te. Solo dopo molto tempo mi domandò la mia storia, e fui finalmente in grado di raccontarla, perfino in pubblico”.
Un percorso che col tempo lo ha portato a studiare in Italia per diventare assistente psico-sociale, e a iniziare la collaborazione con Avsi, che ha incoraggiato la sua formazione. Oggi va nelle scuole della Sierra Leone per individuare assieme agli insegnanti i bambini vulnerabili da inserire nel programma di Sostegno a distanza: gli orfani, i minori di famiglie sfasciate, quelli con disabilità o malattie di cui nessuno si prende cura.
“Stare coi bambini è l’unica cosa che mi rende felice”, dice, spiegando che è per questo che un giorno, in una classe, vedendo una bimba di cinque anni sempre triste e apatica, ha deciso di prendersene cura. “Scoprii che viveva con la nonna anziana, dove sin da piccolissima i genitori naturali l’avevano lasciata. Né io né le sue maestre li abbiamo mai conosciuti. Da allora provvedo alle sue spese e vado a trovarla a scuola per giocare e fare i compiti insieme. Ora ha dieci anni, è rimasta ad abitare con la nonna ma mi chiama papà”.
La scelta di Jimmy in Sierra Leone è nota come “menpikin“, una pratica tradizionale in cui i parenti, i vicini di casa o perfetti sconosciuti decidono di prendersi cura di un minore rimasto solo accogliendolo in casa o provvedendo ai suoi bisogni. Una forma di affido informale che dopo la guerra civile nonché l’epidemia di ebola del 2014 è diventata ancor più necessaria, e Jimmy non ha dubbi: “Ai bambini serve una famiglia. Devono crescere bene e ricevere un’educazione, il futuro della Sierra Leone dipende da questo, non dai diamanti”.