L'inverno del nostro silenzio
L'ultimo dei Cinque Passi - per quest'anno - di padre Maurizio Botta si è svolto sabato 26 marzo e ha messo a tema il silenzio. Era il giorno prima del mio compleanno, ascoltare per intero questa catechesi è stato il miglior regalo che potessi farmi.
Mi sono chiesta perché come locandina fosse stata scelta l'immagine di un albero in inverno coperto di neve. Non mi pareva immediato il legame con l'argomento. Vero è che mai come in un paesaggio coperto di neve si sente il silenzio.
Alla fine della chiacchierata di padre Maurizio, quella stessa immagine mi è parsa eloquente: l'inverno non è un tempo di morte, ma di attesa. Il freddo è una pausa che custodisce il seme che fiorirà a primavera. Qualcosa di noi fiorisce attraverso il freddo di certi silenzi.
Entrare nel regno dell'inverno, del silenzio, è un passo che svela la nostra capacità di relazione, con gli altri con noi e con Dio.
Il silenzio tra amici
Non si può tradire il senso delle catechesi di padre Maurizio con una sintesi, o peggio, una riduzione. Godetevi quella sul silenzio e le altre in pienezza, ascoltandole per intero.
Mi ritaglio lo spazio di questi appunti, per individuare un filo rosso che spero continui a farmi compagnia nella memoria quotidiana. Esistono tantissimi silenzi, padre Maurizio ne ha tratteggiati numerosi - buoni e cattivi, fecondi e velenosi. Tutti dicono qualcosa dei nostri rapporti. Niente come il silenzio ci mostra come stiamo davanti all'altro (che è l'amico, che è il mistero di noi stessi, che è Dio).
Nelle relazioni affettive e amicali c'è un tacere che è sinomino di legame profondo. Siamo spaventati dalle pause, dallo stare insieme senza dire nulla. Eppure credo di essere tra i molti che provano nostalgia per quel genere di rapporto così intimo che non ha bisogno di trilli e chat. Avrebbe solo bisogno di presenza:
Penso, da madre, a quanto vorrei che i miei figli mi parlassero, mi dicessero tutto e subito. Cado nella trappola di pensare che 'pausa' sia per forza sinonimo di incomprensione e distanza. Li stuzzico, li presso, ma dovrei forse farmi compagna di silenzio. Loro sono sempre sovraccarichi di parole (tra scuola, cellulare, video), forse c'è una vera accoglienza che passa da quel genere di tacere eloquente che dice: "Mi godo la meraviglia che è la tua presenza. Sono qui con te".
Il silenzio per proteggere la fragilità altrui
E poi c'è un altro silenzio - che manca - e rivela molto di come sfruttiamo i rapporti, anziché custodirli. Condividere le nostre esperienze con gli altri non di rado assume la forma dello sfogo. Ci sono casi in cui indubbiamente è una terapia non cattiva, tra amiche lo si fa scherzando. C'è il momento del flusso liberatorio, e non occorre neppure che qualcuno ascolti per filo e per segno. Accade però che, quando si vivono situazioni particolarmente dolorose, lo sfogo assuma la forma di una vera tentazione, che chiama in causa l'ipotesi della disperazione in chi parla e in chi ascolta.
Ho ascoltato più volte questo passaggio della catechesi perché è un nervo scoperto, scotta.
Quante volte ci fermiamo per chiederci se quello che affligge noi può provocare un danno nella persona a cui ci rivolgiamo? Raramente mi pongo questa domanda, lo ammetto. Il pilota automatico della sofferenza mette l'io al centro del discorso, invece anche la fragilità di chi ci ascolta deve essere protetta. Benedetto e rarissimo è il silenzio di chi trattiene le proprie parole per non indurre l'altro in disperazione.
È un inverno buono questo, il congelamento di un'istintività che sarebbe solo e soltanto nociva. E insieme è l'attesa che Qualcuno prenda parola per sbrogliare la nostra matassa.
Silenziare il nostro rumore mentale
Il vero dialogo rumoroso non lo abbiamo con gli altri, ma con noi stessi. C'è un silenzio di cui tutti sentiamo la mancanza: non a caso, molte domande poste a padre Maurizio dopo la sua catechesi hanno battuto sul ferro caldo che riguarda gli incessanti e ininterrotti pensieri che ci borbottano dentro.
Su questo panorama intimo così perennemente rumoroso deve scendere l'inverno. C'è da congelare quella voce interiore che ha la presunzione di essere autoreferenziale come un cane che si morde la coda. Il nostro io copre Dio. E la solitudine può essere quel luogo in cui non solo non c'è silenzio, ma si splancano ancora di più le porte del nostro discorso interiore. Come una diga che si rompe.
Quando Dio parla tutto fiorisce
Abbiamo bisogno di una Parola che risolva i nostri rumori, lamenti, gridi. Il paradosso fecondo del silenzio passa dal verbo chiudere: c'è un modo di tacere che ci mette in comunicazione più vera con gli altri, c'è un modo di tacere che argina il nostro egoismo. Entrambe queste "chiusure" somigliano al vero tacere, quello della terra coperta di neve sotto cui è piantato un seme o quello di un incontro che può avvenire solo in un piccolo spazio protetto da molte porte chiuse.
In tanti hanno chiesto a padre Maurizio come si fa ad arrivare a vivere questo silenzio. E lui ha ripetuto che non si tratta di una strategia, non c'è tutorial. Non è un problema di come.
Ed è qui che quell'albero coperto di neve mi è parso un simbolo perfetto. Senza la Parola di Dio siamo freddi e bloccati. Ogni nostra vitalità apparente - chiacchiere, commenti, sfoghi - c'illude di avere il potere di tenerci i vita. Invece la nostra unica linfa di vita, capace di metterci la primavera dell'eterno nell'anima, viene dalla relazione con il Padre.