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Attorno alla “devota bestemmia” di Putin allo stadio Luzniki

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 21/03/22
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La citazione di Gv 15,13 da parte di Putin è stata da più parti giudicata blasfema. Perché? È possibile (o anche solo auspicabile) che ai governanti sia interdetto il riferimento alla sfera del sacro e della Rivelazione? I politici sono condannati a tacere di Dio?

A quanto pare siamo stati in molti, seguendo quattro giorni fa il propagandistico “show di Putin” allo stadio Luzniki, a prorompere nell’accusa di un’autentica bestemmia quando l’autocrate russo ha citato il Vangelo secondo Giovanni («Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» Gv 15,13) per giustificare, e anzi santificare il massacro scriteriato e indiscriminato che i suoi soldati stanno perpetrando in Ucraina. 

Il Manifesto dell’Anticristo di Solov’ëv

In più di qualcuno sarà risuonata in mente la viscida blasfemia che il visionario ultimo scritto di Vladimir Solov’ëv – Il racconto dell’Anticristo – attribuisce al “grande eletto” del Congresso degli Stati Uniti d’Europa: 

Poco importa che, anche in quel caso, la proclamazione della pace sia stata seguita da una “passeggiata militare” volta a sottomettere ogni residua pretesa di autonomia locale: Solov’ëv aveva già annotato che 

Il grande Vladimir (lo scrittore, si capisce) osservava sibillinamente che «per essere accolti occorre essere piacevoli» (l’assonanza tra “prinjatyj” [accolto] e “prijatnyj” [piacevole] rende il motto di sapore proverbiale), e pure la scelta del dresscode putiniano per il “Puting” (© Navalny) del 18 marzo – maglione bianco e morbida giacca a vento – contrasta apertamente con l’aria di guerra di cui parlano tutti: è confortante, rassicurante. Anche questo è stato già scritto. 

Saranno poi marginali, ma di certo non sono pochi quanti pendono dalle labbra dell’aspirante Imperatore (malgrado gli sforzi, comunque pur sempre un’ombra dell’inquietante personaggio letterario). Da Roma Francesco, sulle orme del Pietro II del Racconto, non si fa ammaliare: 

Per una ragione teologica Forte

L’Ansa aveva prontamente registrato la dichiarazione del vescovo di Chieti, mons. Bruno Forte: 

Domenico Agasso jr. è andato a sviluppare in un’intervista (comparsa ieri su La Stampa) la dichiarazione di mons. Forte, e facendolo ha toccato diversi altri temi sensibili, che vale la pena richiamare brevemente: 

Appare particolarmente apprezzabile, nelle dichiarazioni del presule, la netta sconfessione (in linea con le dichiarazioni di Parolin) della tesi di chi vorrebbe pagare la pace al prezzo dell’Ucraina stessa; nonché la puntualizzazione del cuore dell’errore di Kyrill, che non sta nell’opposizione all’omosessualismo bensì nell’appoggiare un’aggressione abominevole a un Paese certamente non reo di tanto brutale trattamento. 

Evitare l’insidia del laicismo auto-inflitto

Altri osservatori hanno ugualmente individuato la blasfemia della citazione, ma nel commentarla hanno talvolta osservato che ad essere in sé blasfema sarebbe «la retorica religiosa del potere e della violenza», tout court. L’affermazione si presta facilmente a un contesto fugace e volatile come quello dei social, ma pone qualche problema sul piano della riflessione filosofica. Viene ad esempio in mente l’arioso incipit della Declaration of Independence degli Stati Uniti d’America, in cui «le leggi della Natura e di Dio» (non espressamente ed esclusivamente cristiane, ma teistiche) vengono espressamente messe a fondamento dell’azione politica (ed è un’azione rivoluzionaria): 

Da questo deriva recta via, per i Padri Costituenti americani, che 

“Modificare” e “abolire” un governo sono cose che rarissimamente nella storia umana riescono in maniera incruenta, e questo è solo uno dei millemila esempi possibili di “retorica religiosa del potere e della violenza” che pure non costituisce blasfemia, perlomeno nell’accezione di vox media

Ad essere blasfemo, dunque, non è che un politico parli di Dio o citi il Vangelo – saremmo nell’àmbito del più acre laicismo francese se lo pensassimo –, bensì che quelle parole introducano e sostengano (tanto peggio se in cattiva fede) azioni volte a ledere, e non a tutelare, «la sicurezza e la felicità del popolo medesimo». 

Quanto rischiano i governanti che si riempiono la bocca di “Dio” 

Nel mezzo degli anni ’60 del XIII secolo Tommaso Agni da Lentini, domenicano divenuto vescovo di Betlemme, caldeggiò fortemente la composizione di un’opera sul buon governo da parte di quel Tommaso dei Conti d’Aquino che anni prima egli stesso aveva introdotto in Convento. 

L’Angelico non fu entusiasta di sospendere (né l’avrebbe mai potuto riprendere) il commento alla Politica di Aristotele per spiegare all’ennesimo re-bambino (Ugo II di Cipro) come si deve governare un Paese, anche perché Tommaso non riteneva affatto che la monarchia fosse il miglior modello di governo possibile, incline alla tirannia come strutturalmente essa sempre è. 

La Realpolitik del solito bollente Medio-Oriente, unita all’invito paterno del confratello vescovo, lo spinse a interrompere il lavoro sulla Politica teorica. Tommaso ritenne allora utile – come tornava a farmi notare un amico erudito – soffermarsi sulla responsabilità del tiranno davanti a Dio. 

Il destinatario dell’opuscolo era già morto quando Tommaso finì di scrivere, e dunque non ebbe più bisogno dei consigli dell’Angelico: il suo nome venne abraso dal titolo dell’opera, e questo contribuì in qualche misura alla fortuna del lavoro, che divenne modello esposto a molte imitazioni nel genere. 

Ogni politico del mondo – a qualunque latitudine o in qualunque epoca – può mettersi per qualche ora nei panni del “Re di Cipro” per ricevere i salutari ammonimenti del grande Dottore domenicano: analogamente a quanto si dice dei Pastori, parlare di Dio – o in suo nome o derivando ciò che si dice dalla Rivelazione divina o naturale… – è inevitabile per chiunque, tanto più per chi si trova in posizione di forte potere. «A chiunque fu dato molto – ammonisce però il Salvatore nel suo Evangelo – molto sarà chiesto: a chi fu affidato molto sarà richiesto molto di più» (Lc 12,48). 

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