Un ripensamento a un passo dalla morte in una clinica svizzera, questo si apprende riguardo a Marco Madeddu, 45enne di Carbonia che da due anni lotta contro la Sla. Sono scarne le notizie sul dietro front, e va benissimo così. Il pudore e il silenzio custodiscano quest'intuizione arrivata a un soffio dal passo decisivo:
Vivere ancora un po'
I toni urlati della propoganda eutanasica, il sovraffollamento mediatico di spunti emotivamente ammiccanti per giustificare il suicidio assistito contrastano con la scarna sintesi di quella frase: “Ho deciso di vivere ancora un po’”. Questo lascia sperare che il vero campo di discernimento dell'anima sia la realtà dell'esperienza e non le capacità dialettiche degli intellettuali. Volutamente non ho scritto campo di battaglia, perché l'eutanasia non è oggetto di battaglia, bensì una perdita su tutti i fronti umani possibili. La battaglia è quella che ogni anima ingaggia vivendo le circostanze, anche le più dolorose e tragiche, nella piena coscienza che proprio lì sia in gestazione il proprio destino eterno.
Che sia chiaro. Non vogliamo usare la storia di Marco Madeddu come pedina (era nel campo del nemico, ora è passato dalla parte del 'giusto'). Sarebbe un abbaglio enorme, e non renderebbe giustizia alla complessità di un'anima in pieno travaglio.
Non abbiamo bisogno di pedine, ma di testimoni.
Tanto basta. Chi vive un dramma simile sappia di questa testimonianza. E' un tassello in più in uno dei sentieri più bui in cui l'umano può addentrarsi. Un dettaglio però va evidenziato. In un mondo fiero e orgoglioso di autodeterminarsi, qui spicca una scelta frutto di un coro e non di una voce singola. Era convinto di morire e poi gli hanno fatto il lavaggio del cervello - diranno alcuni. Ma la verità è che spesso le decisioni davvero rilevanti non dobbiamo illuderci di volerle prendere da soli. Ogni uomo è un mistero plurale, la luce del discernimento non viene dall'egocentrismo.
La morte come cura
Però sì, è vero. Marco Madeddu era davvero convinto di voler morire. Aveva espresso una chiara posizione di protesta nei confronti della politica italiana che ancora non si è inchinata alla buona morte. E le sue parole, precedenti alla scelta di vivere ancora un po', offrono degli spunti interessanti.
Difendeva strenuamente la scelta di poter ricorrere all'eutanasia, come unico e ultimo brandello di scelta dentro l'orizzonte di una malattia che non dà scampo. Che cos'è un uomo se non è libero? E può restare libero anche tra le morse di una condizione che "non ti dà neppure lo 0,1 per cento di possibilità di vincere"? Cos'è poi vincere? Sconfiggere la malattia o restare umani dentro la malattia?
Queste devono restare domande. E, invece, il pericolo che la libertà umana di stare in pienezza di fronte a domande dalla vertigine indicibile sia atrofizzata è proprio scritto in ciò che Marco additava come limite colpevole: "in Italia la politica si è impossessata della vita e della morte". Ci si sta provando, ma non è ancora così. Se fosse così sarebbe davvero un incubo. Le parole contano, perché condizionano il pensiero. Qui il ragionamento è: non essendoci una legge che permette al malato di ricorrere all'eutanasia, allora la politica tiene le redini della vita e della morte.
Ed è un ragionamento scorretto. Proprio perché, per ora, non esiste in Italia una legge sull'eutanasia possiamo ancora dire che la morte non è di pertinenza dello Stato. Quale cupo scenario si aprirebbe se fosse davvero così? E visto che le parole contano, occorre pronunciarle giuste. La politica non ha ancora approvato una legge sul suicidio assistito. Tra morte e suicidio ci passa di mezzo il mare.
Ieri sera, guardando una serie TV, mi sono trovata ad assistere a una scena in cui uno psichiatra avvallava l'ipotesi dell'eutanasia per una paziente affetta da tumore al polmone, citando Socrate. E con una battuta efficacissima invitava la povera donna a morire dicendo: "No, la morte non è la fine, ma la cura".
Per chi vive l'esperienza di malattie invalidanti e dolorose, parlare di morte come cura è perfido. E anche in questo caso, la frase è linguisticamente ingannevole: a ben vedere la cura sarebbe il suicidio, non la morte.
Perché, effetivamente, la morte è una cura, ma nel mistero del suo essere un dono che verrà elargito non dalle nostre mani. Anche solo l'approssimarsi alla fine è stata una cura per Marco, cioé gli ha offerto una chiarezza personale in grado di scalfire la posizione precendente così determinata a porre fine alle sue sofferenze. La cura, appunto, non è porre fine alle sofferenze ma avere una visione chiara di sé, non determinata neppure dal distorcimento della prostrazione fisica e mentale.
La cura offerta dal suicidio è solo l'illusione che non ci sarà più dolore, ma può essere perseguita solo portando una persona a negare se stessa. La morte, invece, non nega nulla della persona, è l'ultimo tassello del vivere, misterioso e imprevisto quanto la nascita. E le cure palliative esistono proprio perché essere accompagnati alla venuta della morte è il contrario di uccidersi.
La malattia del chiedere
E' facile ragionare e scrivere quando si è in salute. La perfidia di una malattia come la SLA non è neanche lontanamente immaginabile a chi non la conosce direttamente, anche solo avendo assistito un parente. Proprio per questo però, si deve dar credito ai testimoni con le loro voci diverse ... perché non tutti i malati cantano nel core pro-eutanasia. Una voce chiara è quella di un altro sardo che vive da anni il medesimo calvario degenerativo. Sto parlando di Paolo Palumbo che molti hanno conosciuto perché è stato ospite a Sanremo in un'edizione precedente.
Vive la sua condizione di malato di SLA anche nella forma pubblica dei social, senza celare nulla del suo strazio ma mostrando il suo cocciuto amore alla vita. Ultimamente è stato attaccatto per l'ennesima volta dal pubblico con una domanda aggressiva: ma perché non la fai finita e scegli l'eutanasia?
Si può anche ipotizzare che l'autore di questa uscita non abbia compreso la sua violenza verbale. Vedere un uomo che soffre, ci fa soffrire. La mossa del commento istintivo può essere stata quella di pancia di chi pensa: ma non sarebbe meglio per questo poveretto mettere fine al dolore? Il poveretto ha risposto che è meglio continuare a vivere.
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Paolo chiede aiuto. Forse, ancora più dell'atroce dolore fisico, è questo essere disarmato nella dipendenza che ci risulta scabroso, e fa voltare gli occhi dall'altra parte. Ed è un punto di contatto con la storia di Marco Madeddu, che alla malattia contenstava proprio questo: avergli tolto l'indipendenza.
A Marco non abbiamo nulla da insegnare, o spiegare. Ma possiamo garantirgli la compagnia della preghiera, perché siamo noi indipententi-egocentrati-autodeterminati i primi a dover imparare la benedizione della dipendenza.
Caro Marco, uno spiraglio si è aperto un passo prima della scelta di morire. Spalancalo, ancora di più. Noi insieme a te chiediamo che si mostri al tuo fianco colui che reclama la dipendenza di noi tutti, quel Padre che, legandoci a Sé, ci libera dai vincoli e dai limiti che riterremmo insopportabili.