Dalla nostra platea lontana e attonita, forse guardare è azione migliore che parlare. Da ogni schermo ci arrivano voci, commenti, aggiornamenti sulla guerra in Ucraina. Ci troviamo a riconoscere come familiari dei suoni complessi, ad esempio Zaporizhzhia. Sono nomi che buona parte di noi ignorava fino a un paio di settimane fa. Sono città, storie e vite che restano a indicibile distanza da qui. Scenario è la parola preferita dagli esperti che parlano nei telegiornali. Ma l'impressione è che le ipotesi strategiche formulate sulla base di competenze storiche e politiche siano una lunga strada parallela e distante dall'urgenza presente dei fatti.
E allora guardare, più che parlare. E lasciarsi anche sconcertare dalla vista. Rimanere esposti all'ondata di documenti visivi che arrivano dalle frontiere e dalle città ucraine bombardate lascia squarciata la nostra vulnerabilità. Non è la posa del guardone, ma la sveglia da un letargo in cui siamo stati fin troppo comodi. Da Mariupol arrivano video e istantanee di devastazione, ed è arrivata una sequenza di 3 fotografie che raccontano l'agonia di un bimbo di 18 mesi chiamato Kirill.
Prima foto: un fagotto insanguinato in braccio al papà
Nel messaggio domenicale di ieri il Papa ha ringraziato i cronisti che hanno scelto di rimanere nei luoghi più pericolosi del conflitto ucraino per documentare la guerra. E documentare è il massimo della professionalità di un giornalista, forse da un po' di tempo ce ne eravamo dimenticati. Quello che è capitato al fotografo Evgeniy Maloletka di Associated Press è emblematico dell'irruenza della realtà. Possiamo stare zitti, lasciare che urli da sola il suo grido.
Il fotografo Maloletka si trovava all'ospedale di Mariupol a documentare la capitolazione di una città allo stremo. Ha scattato questa foto che è diventata il primo tassello di una storia su cui ora tutto il mondo piange. Un giovane padre entra di corsa dalla porta del pronto soccorso con un fagotto azzurro. C'è sangue sulla coperta che avvolge un bambino. Sapremo dopo che ha un nome, Kirill e ha 18 mesi.
Dietro la madre, un volto sfigurato dal dolore e altro sangue sulla maglia. Al centro della scena una piccola mano che spunta inerte nell'abbraccio del padre. Chi sono, cosa è accaduto, che ne sarà di loro: è tutto sospeso. Anche le presenze attorno a loro guardano e basta, probabilmente ben consapevoli dell'ennesima tragedia che si sta consumando.
Seconda foto: i dottori lo soccorrono
Il Papa usò l'immagine della Chiesa come ospedale da campo, sembrava una metafora potente anche solo immaginandola in astratto. Dall'Ucraina ci arrivano immagini di ospedali al collasso, organizzati anche in luoghi improvvisati. Ci sono reparti di maternità ricavati in scantinati e, rimasti senza elettricità, i medici visitano i pazienti usando le luci dei cellulari.
La seconda foto scattata dal reporter di Associated Press inquadra il tentativo dei medici di salvare il bambino. C'è un guanto azzurro, in basso, che porge una piccola garza. Potrebbe essere la mano di noi che guardiamo - ecco il pensiero (in fondo inutile) che mi è passato per la testa. Vorremmo dare una mano. Ma soprattutto sentiamo il bisogno di una mano che entri nella storia ferita dell'uomo e lo porti via dalle contraddizioni piantate dentro la vita.
Tanti si sono dati da fare attorno a Kirill, ma non c'è stato niente da fare. E viene da chiedersi cosa tenga quei medici al loro posto. Si può continuare a soccorrere quando la morte e la disperazione sembrano padrone del campo? Stavo per scrivere 'si deve', ma anche questo è un ragionamento. Si fa, questa è la risposta che vediamo scritta nei gesti degli operatori sanitari ripresi nei video e nelle immagini che ci arrivano. Uno dei medici che ha soccorso Kirill ha dichiarato:
Terza foto: il pianto dei genitori
Per prima cosa ho notato la lettiga arrugginita, forse perché è fatica alzare gli occhi gli occhi sulla carezza che la madre fa al figlio esangue. Kirill è morto su una lettiga arrugginita a Mariupol, primi di marzo del 2022. Il disastro umano che è un guerra è tutto qui. Il fotografo ha il privilegio di essere testimone puro, chi scrive deve aggiungere le parole ai fatti e per quanto ci si sforzi non ci sono termini sinceri quanto un'immagine.
Forse l'unica cosa che le parole possono aggiungere è di stare a contemplare la scena di questa famiglia. Se ci viene da pensare a uno dei tanti quadri della Deposizione del Cristo morto non è per un'associazione erudita del pensiero. Possiamo affidare a Maria, il cui manto azzurro pare essere lì - insistentemente dentro la foto, le preghiere per chi è nell'agonia. Ricordiamoci che il nostro Cielo è abitato da un Dio e da Sua Madre che hanno conosciuto in terra il dolore che fatichiamo a fissare in questa foto, identico.
Di chi è colpa?
Davanti all'opinione pubblica il fagotto di Kirill è troppo pesante da portare. Dagli uomini c'è da aspettarsi di tutto, anche che nasca una polemica lì dove basterebbero silenzio e lacrime. Le foto dall'ospedale di Mariupol stanno facendo il giro del mondo e c'è la polemica sulle colpe.
Sì, il tema dei corridoi umanitari è di cruciale importanza in queste ore. Ma il soggetto inquadrato in questa storia è un altro. Non c'è un prima e non c'è dopo, non c'è una qualsiasi ricostruzione degli eventi che attutisca il colpo. Non c'è uno scenario, c'è proprio una scena. E anche se guardo da lontano le immagini della morte di Kirill, non mi sento - io per prima - del tutto innocente. Appartengo al fallimento globale che dovrà rendere conto di ciascuna vittima.
Fedor e Marina Yatsko hanno perso un figlio di 18 mesi. Il loro dolore non è uno tra i tanti scoop dal fronte di guerra. Se ci fermiamo a guardarli è perché abbiamo bisogno dell'esame di coscienza a cui ci costringe il patire inerte di fronte a un cadavere così piccolo.