Normalmente le pandemie seguono le guerre, non le precedono; se poi in qualche caso le memorie annalistiche rammentano di come le pesti siano risultate decisive nella risoluzione di qualche conflitto, ciò si intende o nel senso esposto poc’anzi oppure in riferimento al caso accidentale di un esercito che, durante lo sforzo bellico, contrae un morbo e ne viene fatalmente decimato.
Questi turbolenti anni Venti, invece, rendono difficile distinguere il secolo in cui si agitano. Da più parti si osserva come sia singolare che a orientare l’Unione Europea nella crisi bellica fra Russia e Ucraina siano attualmente la Polonia e il Regno Unito – ossia un paese non più membro e un paese membro tra i più critici nei confronti di alcune politiche (economiche, sociali e civili) dell’Unione –: l’osservazione è pertinente, ma c’è da sperare che le risposte non si svolgano in preda a qualche tic da Guerra Fredda fuori tempo massimo.
“Il gusto dello sforzo e del sacrificio per difendere le civiltà”
La Polonia resta infatti il primo Paese europeo a produrre una Carta Costituzionale, come il Bill of Rights prodotto nella scia della Glorious Revolution inglese precede di un secolo buono il tanto meno incruento (e troppo più celebrato) Terrore francese. Proprio dalla Francia ieri il normalista Alexis Carré osservava che i cittadini delle società liberali e democratiche devono ritrovare il gusto dello sforzo e del sacrificio per difendere dalle aggressioni la loro civiltà.
Giusto in Independence Day (1996) avevamo visto l’ultima volta un capo di Stato occidentale vestire una mimetica e difendere il suo popolo. Ma era cinema, appunto. Al presidente ucraino Zelenskyy gli USA hanno proposto invece una passerella per salvare la pelle: «Mi servono armi, non un passaggio» è effettivamente una risposta da action movie hollywoodiano… solo che questo non era cinema.
Parafrasando Carré col Manfredi di un bel film di Magni: com’è che questi vogliono stare dalla nostra parte se non solo non li aiutiamo (prontamente, almeno), ma neppure riusciamo a capire com’è che invece di salvarsi la pelle di qua vogliono andare a combattere e, se necessario, a morire di là? Proprio un polacco, accademico di lungo corso, offre una risposta interessante (mentre scrive d’altro):
L’uomo che non sa chi è non si chiede dove deve andare
Questo vale per la vita etica, cui si dedica la miscellanea curata dalla prof.ssa Brambilla, e per quella politica (le cui estreme e incontrollate propaggini sono i fenomeni bellici): se “tutto è permesso” infrangere un patto nuziale o uno diplomatico è pressappoco lo stesso, in ogni caso risulta irrilevante. L’una e l’altra cosa si fanno o si subiscono a seconda dei rapporti di forza tra chi può imporla e chi deve subirla.
Che possa esistere la domanda etica (“come devo vivere”?) senza un fondamento metafisico (ma attenzione, questa desueta parola significa “nelle cose stesse”, non “fra le nuvole”) è postulato che molti nel XX secolo avevano giudicato possibile, mentre in pochi eravamo (e siamo) persuasi del suo carattere velleitario. Lo stesso Ernst-Wolfgang Böckenförde lo aveva mirabilmente sintetizzato nel suo “paradosso”: le civiltà liberali vivono di presupposti che non sono in grado di fondare (e cioè di garantire). La crisi ucraina ne favorisce, come a modo suo conferma Carré, una prova del nove: ci identifichiamo come “il mondo libero” ma fatichiamo a tutelare questa libertà non meno di quanto fatichiamo a individuarne limiti e fondamento.
Lo stesso accade al livello della prima società, quella più naturale che si dia all’esperienza umana, e che delle successive (lo Stato ma anche i corpi intermedî) è cellula e modello: la famiglia. Non a caso Grygiel proseguiva:
Come si vede è Grygiel, non a caso polacco, a considerare insieme con la famiglia anche la nazione e la Chiesa. Il filo che tiene queste tre perle dell’azione pratica umana è, per il docente emerito di antropologia filosofica, la fedeltà. Certamente non si pone il problema “come essere fedeli?” se non si dà la posizione di “cosa merita fedeltà”. Il che spiega pure, fra l’altro, il facillimo oscillare dell’opinione pubblica tra un servizio televisivo e una pubblicità.
Il problema della conoscenza, tra evidenza e testimonianza
Si tratta di un problema non da poco, e gli attualissimi fatti bellici lo evidenziano: tutte le guerre si sono sempre svolte anche sul piano delle informazioni e delle narrazioni – previe, circostanziali e postume –, e nell’epoca dei deep fake risultano sempre più profetiche le parole di Chesterton “tutto diventerà opinione”.
In politica, come anche in etica, si pensa di avere il diritto di dubitare di tutto… e su un piano di puro principio – dato che l’etica e la politica non sono scienze puramente deduttive – ciò è pure vero: come si fa a distinguere il vero dal falso, quando le notizie si rincorrono, si accavallano, si contraddicono, si cancellano a vicenda? La questione è sempre a monte, come è necessario che sia per ogni fondata credenza: sapere a chi si dà fiducia.
L’ambiente in cui l’essere umano è iniziato a questa “ginnastica fondamentale dell’anima” è la famiglia, nella quale si apprende a conoscere e a ritenere i fondamenti dell’esistenza propria e altrui su una base puramente testimoniale (a cominciare dalle ovvietà: credi di chiamarti così e di essere nato da questi genitori e nel dato contesto… perché te lo dicono); in questa trasmissione è della massima importanza che chi trasmette conoscenze sia riconosciuto fededegno… e che egli/ella stesso/a, con tutto il contesto, faccia il possibile per elevarsi all’altezza di tanta fiducia.
È quanto accade perlomeno da una dozzina di millenni, sulla terra, ma l’erosione di questi principî è sotto gli occhi di tutti, anzi essa avviene perfino attraverso una teorizzazione lucida (nella sua follia) che dopo l’umanesimo annuncia il “transumanismo”. Anche qui la cronaca ci aiuta, perché mentre (giustamente) ci si batte il petto per i bambini uccisi dalla guerra, o resi orfani o separati dai genitori, il mainstream mediatico impone – pena l’esclusione de facto dalla sfera pubblica – che si accolga con favore la barbara pratica dell’utero in affitto. È di questi giorni la notizia che un noto cantante italiano avrebbe acquistato due cuccioli d’uomo dichiarandoli figli suoi e del “marito”: in Italia la pratica dell’utero in affitto è illegale e come tale sanzionata penalmente, ma sembra che lo Stato non batta ciglio se i suoi cittadini vanno a performarla all’estero; del resto neppure esiste, in Italia, una cosa che permetta di dichiarare due uomini mariti l’uno dell’altro, ma tant’è…
Neanche sembra possibile una ripartizione “in blocchi” della questione bioetica, come sembrerebbe confarsi alle prospettive di Guerra Fredda recentemente riapertesi: è vero che l’utero in affitto è legale in Ucraina, ma è altresì vero che il cantante di cui sopra è andato negli Stati Uniti a usufruirne; avrebbe potuto farlo anche nel Regno Unito, in Belgio, in Portogallo, in Danimarca, in Grecia, in Olanda o a Cipro (l’elenco non è affatto esaustivo)… nonché – e ancora più facilmente – nella stessa vastissima Russia, che una certa narrazione vorrebbe presentare come la custode di ogni solida antropologia, mentre questo è solo uno dei molti vulnera che il suo ordinamento infligge ogni giorno alla grammatica elementare degli affetti e della fiducia.
Dare forza alla famiglia, sostenere le persone
Senza quella “palestra dell’anima” che è la famiglia, infatti, l’individuo perde la solida saldatura naturale con le esperienze fondamentali della vita activa: egli è allora vieppiù esposto alle tecniche comunicative esercitate dalle grandi strutture di convoglio antropico (anzitutto gli stati e le religioni)… nonché alle cieche ragioni dei mercati e della finanza. Qui si collocano le ragioni ultime per cui quanti si credono e si dicono “padroni del mondo” perseguono le derive antropologiche che cominciano dal divorzio e dall’aborto, passano per l’eutanasia e ogni genere di manipolazione della vita nascente… e chissà se e quando potranno arrestarsi. Occasionalmente possono sorgere guerre, per le tirannidi politiche o per i fanatismi religiosi, ma il Mercato ha buon agio di considerare questi marginali inconvenienti un “effetto collaterale” agevolmente riassorbibile in un nuovo ciclo di utili.
Il libro curato da Giorgia Brambilla è utile a rimettere a fuoco la posta in gioco, ma non solo: esso è utile soprattutto nell’indicare le ragioni e i motivi per cui ha senso resistere all’erosione, denunciarla… e rilanciare un processo di rifondazione dell’umano. Giovanna Abbagnara invita alla sua lettura osservando:
Sarebbe sciocco e inutile rifugiarsi in nostalgici passatismi, e non è questo il senso della miscellanea in questione: lo stesso asserto dell’esistenza della legge naturale sarebbe puro maquillage teoretico, se poi di fronte alle sfide della società contemporanea la risposta del moralista fosse la famosa “mossa dello struzzo”. Essa infatti, cioè la legge naturale, o c’è o non c’è, e se veramente essa è quale viene ritenuta (ossia “ontologicamente radicata” nell’essere umano) si deve nutrire la ragionevole fiducia che nulla potrà mai estirparla del tutto.
Il tono dell’invito alla lettura di Abbagnara è, fin dalle prime righe, quello di un “elogio del kintsugi”, ma pur essendo un’immagine assai felice ed evocativa non è questa quella scelta per intitolare il volume:
Offrire alle famiglie ragioni e motivi per comprendersi e fondarsi, questo è dunque ciò che ha mosso i «docenti e collaboratori dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose dell’A|teneo Pontificio “Regina Apostolorum”» ad avviare uno studio multidisciplinare per la cui stesura sono stati invitati anche colleghi e amici di altre facoltà, nonché esperti del settore impegnati in contesti diversi da quello accademico.
Quattro sono le sezioni della miscellanea (Filosofia e sociologia, Teologia e scienze religiose, Vita e bioetica, Psicologia e pedagogia), nelle quali vengono raccolti e suddivisi diciannove contenuti di altrettanti autori. Se è vero che «il mondo soffre per mancanza di pensiero», certamente di quella sofferenza sono partecipi in qualche modo anche la Chiesa e la famiglia, nonché le nazioni e il concerto delle civiltà. Ecco allora uno spunto per avviare e alimentare un’azione virtuosa e costruttiva.