Non “discorsi interminabili” e teorie “su ciò che dovrebbe essere” la teologia del sacerdozio, ma quattro “vicinanze”, a Dio, al vescovo, tra i presbiteri e al popolo, che “possono aiutare in modo pratico, concreto e speranzoso a ravvivare il dono e la fecondità che un giorno ci sono stati promessi” come presbiteri. L’intervento di Papa Francesco che apre il Simposio “Per una teologia fondamentale del sacerdozio”, promosso dalla Congregazione per i Vescovi, in Aula Paolo VI, ha lo scopo di “condividere gli atteggiamenti che danno solidità alla persona del sacerdote, le quattro colonne costitutive della nostra vita sacerdotale” e che chiama le “quattro vicinanze”, “perché seguono lo stile di Dio, che fondamentalmente è uno stile di vicinanza”.
Strumenti concreti per i sacerdoti
Un articolato discorso, nel quale il Papa riporta concetti già espressi, soprattutto nella Evangelii gaudium, la sua prima esortazione apostolica, ma sui quali si sofferma “in maniera più estesa”, perché il sacerdote “più che di ricette o di teorie, ha bisogno di strumenti concreti con cui affrontare il suo ministero, la sua missione e la sua quotidianità”. Le sue parole, chiarisce, sono “frutto dell’esercizio di riflettere” sulla testimonianza “che ho ricevuto da tanti sacerdoti nel corso degli anni”, contemplando “quali erano le caratteristiche che li distinguevano e davano ad essi una forza, una gioia e una speranza singolari nella loro missione pastorale”.
Vicinanze che evitano al prete una vita “da scapolo”
La logica delle vicinanze, chiarisce Francesco, consente al sacerdote “di rompere ogni tentazione di chiusura, di autogiustificazione e di fare una vita ‘da scapolo’, anzi da scapolone”, perché invita a fare appello agli altri “per trovare la via che conduce alla verità e alla vita”. Sono quattro dimensioni che ci permettono, conclude “di gestire le tensioni e gli squilibri con cui ogni giorno abbiamo a che fare”, una “buona scuola per ‘giocare in campo aperto’, dove il sacerdote è chiamato, senza paure, senza rigidità, senza ridurre o impoverire la missione”. Non sono “un incarico in più”, ma “un dono” che il Signore fa “per mantenere viva e feconda la vocazione”.
Per restare in pace nei momenti di prova e desolazione
Il Pontefice esordisce sottolineando che il “piccolo raccolto” che vuole condividere, il Signore glielo ha fatto conoscere via via, “durante questi più di 50 anni di sacerdozio”. Incontrando preti che “mi hanno mostrato ciò che dà forma al volto del Buon Pastore”, ma anche accompagnando fratelli sacerdoti che “avevano perduto il fuoco del primo amore e il loro ministero era diventato sterile, ripetitivo e senza senso”. Confida che in alcune situazioni, “compresi i momenti di prova, difficoltà e desolazione, quando vivevo e condividevo la vita in un certo modo rimaneva la pace”.
L’atteggiamento corretto per accogliere il cambiamento
La premessa di Papa Francesco è dedicata all’atteggiamento corretto per accogliere il cambiamento d’epoca che il Covid “ha reso più che evidente”. Non la fuga “verso il passato”, cercando “forme codificate”, che ci “garantiscano” “una sorta di protezione dai rischi”, ma nemmeno “verso il futuro” con “un ottimismo esasperato” che “consacra” l’ultima novità “come ciò che è veramente reale, disprezzando così la saggezza degli anni”.
Invece, mi piace l’atteggiamento che nasce dalla fiduciosa presa in carico della realtà, ancorata alla sapiente Tradizione viva e vivente della Chiesa, che può permettersi di prendere il largo senza paura. Sento che Gesù, in questo momento storico, ci invita ancora una volta a “prendere il largo” con la fiducia che Lui è il Signore della storia e che, guidati da Lui, potremo discernere l’orizzonte da percorrere.
Vocazioni genuine in comunità vivaci e fraterne
“Discernere la volontà di Dio”,spiega il Papa,“significa imparare a interpretare la realtà con gli occhi del Signore, senza bisogno di evadere da ciò che accade alla nostra gente là dove vive, senza l’ansietà che induce a cercare un’uscita veloce e tranquillizzante guidata dall’ideologia di turno o da una risposta prefabbricata”. Una sfida da cogliere anche nella vita sacerdotale. La crisi vocazionale, per Francesco, spesso è dovuta “all’assenza nelle comunità di un fervore apostolico contagioso, per cui esse non entusiasmano e non suscitano attrattiva”. Dove c’è vita, “voglia di portare Cristo agli altri”, sorgono vocazioni genuine.
Persino in parrocchie dove i sacerdoti non sono molto impegnati e gioiosi, è la vita fraterna e fervorosa della comunità che suscita il desiderio di consacrarsi interamente a Dio e all’evangelizzazione, soprattutto se questa comunità vivace prega insistentemente per le vocazioni e ha il coraggio di proporre ai suoi giovani un cammino di speciale consacrazione.
Il Signore ci ha trovato come eravamo
Il Pontefice invita poi a guardarsi dalla tentazione di “vivere un sacerdozio senza Battesimo, senza cioè la memoria che la nostra prima chiamata è alla santità”. Fonte di speranza è Dio che ci ama sempre per primo, e che “anche in mezzo alla crisi”, non smette di amare “e, perciò, di chiamare”. E di questo, prosegue rivolto ai fratelli nel sacerdozio presenti in Aula Paolo VI, “ciascuno di noi è testimone: un giorno il Signore ci ha trovato lì dove eravamo e come eravamo, in ambienti contraddittori o con situazioni familiari complesse; ma questo non lo ha distolto dalla volontà di scrivere, per mezzo di ognuno di noi, la storia della salvezza”.
Ognuno, guardando la propria umanità, la propria storia, la propria indole, non deve chiedersi se una scelta vocazionale è conveniente o meno, ma se in coscienza quella vocazione dischiude in lui quel potenziale di Amore che abbiamo ricevuto nel giorno del nostro Battesimo.
La vicinanza a Dio
Per questo, Papa Francesco approfondisce le quattro “vicinanze”, che definisce “fondamenta solide” per la vita di un sacerdote oggi, partendo dalla vicinanza a Dio, “vicinanza al Signore delle vicinanze”. Senza “una relazione significativa con il Signore – ribadisce - il nostro ministero è destinato a diventare sterile”.
La vicinanza con Gesù, il contatto con la sua Parola, ci permette di confrontare la nostra vita con la sua e imparare a non scandalizzarci di niente di quanto ci accade, a difenderci dagli “scandali”.
Senza preghiera, un prete è solo “un operaio stanco”
Molte crisi sacerdotali, prosegue il Papa, “hanno all’origine proprio una scarsa vita di preghiera, una mancata intimità con il Signore, una riduzione della vita spirituale a mera pratica religiosa”. In momenti importanti “della mia vita”, confida, “questa vicinanza al Signore è stata decisiva per sostenermi”. Senza la vicinanza concreta “nell’ascolto della Parola, la celebrazione eucaristica, il silenzio dell’adorazione, l’affidamento a Maria, l’accompagnamento saggio di una guida, il sacramento della Riconciliazione”, un sacerdote è “solo un operaio stanco che non gode dei benefici degli amici del Signore”.
Rinunciare all’attivismo, crescere nella preghiera
Francesco lamenta che “troppo spesso, nella vita sacerdotale si pratica la preghiera solo come un dovere”, mentre “un prete che prega è un figlio che si fa vicino al Signore”. Bisogna però abituarsi “ad avere spazi di silenzio nella giornata”. Riuscire a “rinunciare all’attivismo”, accettando “la desolazione che viene dal silenzio, dal digiuno di attività e di parole, dal coraggio di esaminarci con sincerità”. Perseverare nella preghiera, per il Pontefice, significa “non scappare quando proprio la preghiera ci conduce nel deserto. La via del deserto è la via che conduce all’intimità con Dio, a patto però di non fuggire, di non trovare modi per evadere da questo incontro”.
Un sacerdote deve avere un cuore abbastanza “allargato” da fare spazio al dolore del popolo che gli è affidato e, nello stesso tempo, come sentinella annunciare l’aurora della Grazia di Dio che si manifesta proprio in quel dolore.
Accettare la propria miseria per far spazio a quella dei fedeli
Infatti, spiega Papa Francesco “abbracciare, accettare e presentare la propria miseria nella vicinanza al Signore” per il sacerdote “sarà la migliore scuola per poter, piano piano, fare spazio a tutta la miseria e al dolore che incontrerà quotidianamente nel suo ministero, fino al punto di diventare egli stesso come il cuore di Cristo”.
La vicinanza al vescovo
Parlando poi della vicinanza al vescovo, il Papa lamenta che “per molto tempo è stata letta solo in maniera unilaterale”, dando all’obbedienza “un’interpretazione lontana dal sentire del Vangelo”. Obbedire significa infatti “imparare ad ascoltare e ricordarsi che nessuno può dirsi detentore della volontà di Dio, e che essa va compresa solo attraverso il discernimento”. E il legame-vicinanza col vescovo, come le altre tre “vicinanze”, consente di rompere ogni tentazione di chiusura in se stessi e aiuta ogni presbitero e ogni Chiesa particolare “a discernere la volontà di Dio”.
Ma non dobbiamo dimenticare che il vescovo stesso può essere strumento di questo discernimento solo se anch’egli si mette in ascolto della realtà dei suoi presbiteri e del popolo santo di Dio che gli è affidato.
La preghiera dei sacerdoti, l’ascolto dei vescovi
Francesco ricorda che nella Evangelii gaudium raccomandava di “esercitarci nell’arte di ascoltare, che è più che sentire. La prima cosa, nella comunicazione con l’altro, è la capacità del cuore che rende possibile la prossimità, senza la quale non esiste un vero incontro spirituale”. Cosi obbedienza “può essere anche confronto, ascolto e, in alcuni casi, tensione”.
Questo richiede necessariamente che i sacerdoti preghino per i vescovi e sappiano esprimere il proprio parere con rispetto e sincerità. Richiede ugualmente ai vescovi umiltà, capacità di ascolto, di autocritica e di lasciarsi aiutare. Se difenderemo questo legame procederemo sicuri nel nostro cammino.
La vicinanza tra presbiteri
La terza vicinanza, quella tra i presbiteri, per il Pontefice si esprime nella fraternità, che è “scegliere deliberatamente di cercare di essere santi con gli altri e non in solitudine”. Per spiegare le sue caratteristiche “che sono quelle dell’amore”, chiede aiuto alla “mappa” del capitolo 13 della Prima Lettera ai Corinzi di san Paolo. Fraternità quindi come pazienza, “capacità di sentirci responsabili degli altri, di portare i loro pesi”, lontana dall’invidia, incapacità di gioire “quando vedo il bene nella vita degli altri”, che “tanto tormenta i nostri ambienti e che è una fatica nella pedagogia dell’amore, non semplicemente un peccato da confessare”. Nella fraternità “non abbiamo bisogno di vantarci”, né di mancare “di rispetto a chi ci è accanto”. L’amore fraterno, ricorda Papa Francesco “non cerca il proprio interesse, non lascia spazio all’ira, al risentimento”, non ricorda “per sempre il male ricevuto” fino al punto magari “di godere dell’ingiustizia quando riguarda proprio chi mi ha fatto soffrire”, e “considera un peccato grave attentare alla verità e alla dignità dei fratelli attraverso le calunnie, la maldicenza, il chiacchiericcio”.
Fraternità che non è utopia, ma palestra dello spirito
Non si tratta di un’utopia, assicura Francesco, anche se “tutti sappiamo quanto può essere difficile vivere in comunità, condividere il quotidiano con coloro che abbiamo voluto riconoscere come fratelli”.
L’amore fraterno, se non vogliamo edulcorarlo, accomodarlo, sminuirlo, è la “grande profezia” che in questa società dello scarto siamo chiamati a vivere. Mi piace pensare all’amore fraterno come a una palestra dello spirito, dove giorno per giorno ci confrontiamo con noi stessi e abbiamo il termometro della nostra vita spirituale.
Fraternità che aiuta a vivere serenamente il celibato
Solo “chi cerca di amare è al sicuro” sintetizza il Pontefice, perché “chi vive con la sindrome di Caino” convinto , “di non poter amare perché sente sempre di non essere stato amato”, proprio per questo “è più esposto al male: a farsi male e a fare del male”.
Mi spingo a dire che lì dove funziona la fraternità sacerdotale e ci sono legami di vera amicizia, lì è anche possibile vivere con più serenità anche la scelta celibataria.
Il celibato, infatti, “è un dono che per essere vissuto come santificazione necessita di relazioni sane, di rapporti di vera stima e vero bene che trovano la loro radice in Cristo”. Senza amici e senza preghiera, ricorda Papa Francesco, “può diventare un peso insopportabile e una contro-testimonianza alla bellezza stessa del sacerdozio”.
La vicinanza al popolo
La quarta vicinanza, “la relazione con il Popolo Santo di Dio”, sottolinea il Papa, “è per ciascuno di noi non un dovere ma una grazia”, che favorisce “l’incontro in pienezza con Dio”, come già a scritto nell’ Evangelii gaudium. Il posto di ogni sacerdote “è in mezzo alla gente”, per scoprire che Gesù crocifisso “vuole servirsi di noi per arrivare sempre più vicino al suo popolo amato”. Egli “vuole che tocchiamo la miseria umana”, e conosciamo “la forza della tenerezza”. Questa vicinanza, come le altre, invita, anzi “esige”, di “portare avanti lo stile del Signore”, fatto “di compassione e di tenerezza, perché capace di camminare non come un giudice ma come il Buon Samaritano”. Come colui che “riconosce le ferite del suo popolo”, i sacrifici “di tanti padri e madri per mandare avanti le loro famiglie, e anche le conseguenze della violenza, della corruzione e dell’indifferenza”.
È decisivo ricordare che il Popolo di Dio spera di trovare pastori con lo stile di Gesù – e non “chierici di stato” o “professionisti del sacro” –; pastori che sappiano di compassione, di opportunità; uomini coraggiosi, capaci di fermarsi davanti a chi è ferito e di tendere la mano; uomini contemplativi che, nella vicinanza al loro popolo, possano annunciare sulle piaghe del mondo la forza operante della Risurrezione.
La vicinanza del pastore favorisce l’appartenenza
In una società dove siamo “connessi a tutto e a tutti, ci manca l’esperienza dell’appartenenza, che è molto più di una connessione”. Ma, ricorda Francesco, “con la vicinanza del pastore si può convocare la comunità e favorire la crescita del senso di appartenenza”. Un antidoto “contro una deformazione della vocazione”, il dimenticare “che la vita sacerdotale si deve ad altri, al Signore e alle persone da Lui affidate”. Una dimenticanza che “sta alla base del clericalismo e delle sue conseguenze”.
Il clericalismo è una perversione perché si costituisce sulle “lontananze”. Quando penso al clericalismo, penso anche alla clericalizzazione del laicato: quella promozione di una piccola élite che, intorno al prete, finisce anche per snaturare la propria missione fondamentale
Come vanno le mie vicinanze?
In conclusione il Pontefice mette in relazione “questa vicinanza al Popolo di Dio con la vicinanza a Dio”, perché quando prega “il pastore porta i segni delle ferite e delle gioie della sua gente, che presenta in silenzio al Signore affinché le unga con il dono dello Spirito Santo”.
Ai vescovi e ai sacerdoti farà bene domandarsi “come vanno le mie vicinanze”, come sto vivendo queste quattro dimensioni che configurano il mio essere sacerdotale in modo trasversale e mi permettono di gestire le tensioni e gli squilibri con cui ogni giorno abbiamo a che fare. Queste quattro vicinanze sono una buona scuola per “giocare in campo aperto”, dove il sacerdote è chiamato, senza paure, senza rigidità, senza ridurre o impoverire la missione.
Vicinanza con lo stile di Dio: compassione e tenerezza
Queste vicinanze del Signore, sintetizza ancora Papa Francesco, “non sono un incarico in più: sono un dono che Lui fa per mantenere viva e feconda la vocazione”. Per evitare la tentazione “di chiuderci in discorsi e discussioni interminabili sulla teologia del sacerdozio o su teorie di ciò che dovrebbe essere”, il Signore, con tenerezza e compassione, “offre ai sacerdoti le coordinate a partire dalle quali riconoscere e mantenere vivo l’ardore per la missione: vicinanza, vicinanza a Dio, al vescovo, ai fratelli presbiteri e al popolo che è stato loro affidato. Vicinanza con lo stile di Dio, che è vicino con compassione e tenerezza”.