È il 1939, l’inizio di uno dei periodi più spaventosi e cruenti che l’umanità abbia mai attraversato: la Seconda Guerra mondiale, la Shoah. Karol Wojtyla è un giovane ministrante quando le truppe tedesche invadono Cracovia. Il suo destino, e quello di tre suoi amici ebrei, poteva essere diverso se non avessero organizzato una fuga rocambolesca per sfuggire ai nazisti.
Karol Wojtyla “Lolek”
Questo fatto inedito della vita del futuro Giovanni Paolo II, lo riporta il vaticanista Gian Franco Svidercoschi nel suo nuovo libro “Gli amici di Lolek” (TS Edizioni).
“Dov’è il Signor Capitano?”
Nella cattedrale del Wawel, a Cracovia, Lolek sta servendo Messa al suo padre spirituale, don Kazimierz Figlewicz, quando sente l’allarme della sirena e poi la prima delle esplosioni. Tutti escono fuori, il sacerdote ancora con i paramenti, e capiscono la drammaticità della situazione. Gli aerei tedeschi scendono in picchiata sulla città, per sganciare il loro carico di bombe su alcuni obiettivi prestabiliti: la ferrovia, la caserma, il deposito di munizioni, la stazione radio.
Lolek non saluta nemmeno. Comincia a correre all’impazzata nel fumo che ha invaso le strade. Il padre era chiamato Capitano poiché era un ex ufficiale dell'esercito asburgico, ma ormai era a casa e aveva seri problemi di salute.
“Non so dove, ma andiamo via”
Lolek entra, esausto, al numero 10 di via Tyniecka. È lì che abita con suo padre Karol Senior, da quando un mese a mezzo prima sono venuti via dalla loro città, Wadowice, perchè Karol Junior si era iscritto all'Università Jagellonica di Cracovia.
Il “Signor Capitano” lo aspetta sulla porta, spaventato, bianco in volto.
La fuga verso est
Tirano giù da un armadio una vecchia valigia, e ci mettono dentro alla rinfusa un po’ di cose. Lolek: «Questa me la porto», è una foto della madre; la bacia e la mette nel borsone. Escono e prendono la strada per Tarnow, verso est, non lontano con i confini con Russia e Romania. Potrebbe essere una via di fuga, un’ultima speranza. Per sfuggire ai rastrellamenti dei nazisti. Lolek: «Ce la fai, papà?». Il figlio sarà lungo, lunghissimo: 200 chilometri.
Con i profughi ebrei
La strada per Tarnow è un fiume umano di persone in fuga. Tantissime le famiglie ebree, con le auto e i carretti stracarichi. Nessuno pensa di poter tornare indietro. Lolek Wojtyla si accorge che il padre cammina con difficoltà. Passa un camion, e il ragazzo riesce a convincere il conducente a far salire il Signor Capitano per un tratto di strada.
Dopo un centinaio di chilometri, però, ricomincia la sofferenza a piedi. La marcia dei profughi procede in mezzo a un coro di lamentazioni, imprecazioni, canti, preghiere..., e viene interrotto da un ronzio sempre più vicino, sempre più minaccioso.
L’Armata Rossa
Dall’altra parte del fiume, spuntano i superstiti soldati polacchi, laceri, stanchi, affamati; portano la drammatica notizia: l’Armata Rossa ha passato la frontiera orientale. E proprio il San, con altri due fiumi, Narew e Vistola, segna la divisione della Polonia in due “sfere d’influenza”.
La decisione: si torna a Cracovia
La quasi totalità dei fuggiaschi ebrei decide comunque di continuare l’esodo verso est. «Meglio sotto i russi che sotto i nazisti»
Pochi altri, come i Wojtyla, tornano invece a Cracovia: sanno bene a quale dominazione avrebbero dovuto sottostare, ma almeno là hanno una casa. Per loro ricomincia l’interminabile cammino, questa volta all’indietro.
La bandiera con la svastica nera
All’arrivo, la vista della bandiera con la svastica nera sul bastione Sandomierz del Wawel è uno spettacolo angosciante. Lolek Wojtyla mette a letto il padre sfinito: «Papà. non ti preoccupare se quando ti svegli non mi trovi. Mi han detto che le file per il pane cominciano alle cinque...».