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L'”Enea d’Amazzonia”: una piccola storia vera che edifica anche noi

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Paola Belletti - pubblicato il 21/01/22
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Il medico che ha scattato l'immagine è lo stesso che ha portato i vaccini a questo piccolo popolo d'Amazzonia. Tra i medici e gli indigeni si è consolidato nel tempo un rapporti di stima e fiducia. Peccato che un racconto così trasparente sia stato sporcato dalle ormai note reazioni di chi si oppone irrazionalmente ai vaccini.

Ormai due settimane fa il medico Eric Jennings Simões ha deciso di condividere sul proprio profilo Instagram uno scatto; lo aveva fatto l'anno prima e riprendeva un giovane indigeno che aveva percorso chilometri nella foresta con il padre disabile sulle spalle, allo scopo di raggiungere il luogo dove avrebbero ricevuto l'iniezione del vaccino contro il Covid-19.

Una storia vera che sembra un mito

Ecco perché è passato alla cronaca come l'Enea d'Amazzonia: il figlio adulto e in forze che si carica il padre incapace di spostarsi sulle proprie gambe per mettere entrambi in salvo da una minaccia reale, estesa e definitiva. Qui non c'è una Troia in fiamme, ma un virus che si diffonde come le fiamme in una radura che non ricorda la pioggia.

Del mito raccontato da Virgilio nel secondo libro dell'Eneide manca la generazione più giovane, quella di Ascanio. Non importa, il gesto in sé ha evocato con prepotenza il significato "portato sulle spalle" dal mito: l'Anchise, memoria e tradizione, caricato dal giovane in forze, proteso al futuro senza traccia di ingratitudine.

L'uomo che ha compiuto l'impresa si chiama Tawy, suo padre Wahu. La dichiarazione che segue è proprio del dottor Simoes, neurochirurgo dell’Hospital regional de Baixo Amazonas di Santarém e medico della Segreteria di salute indigena (Sesai), con vent’anni di esperienza di lavoro con i popoli della foresta.

E' una risposta, la sua, a una excusatio che putroppo è stata petita eccome: accuse di falso, di uso strumentale di un'immagine presa da un altro contesto, di vaccinismo acritico e oltranzista. Questa diatriba, a quanto pare, è più inclusiva e diffusa di qualsiasi politica per l'inclusione.

I fatti

Sì, dunque è vero che la foto non è recentissima ma risale ad un anno fa. Non al 2015 come in più di qualcuno gli hanno contestato, impugnando questo argomento cronologico - falso - per dimostrare le torbide intenzioni di chi l'ha pubblicata.

Invece il motivo è parecchio più semplice e comprensibile: solo ora, a distanza di un anno, ha pensato che potesse offrire quello scatto, per lui commovente e indubitabilmente autentico, per dare coraggio ad altre persone.

La pandemia per i popoli indigeni d'Amazzonia è stata una tragedia, per alcune etnie ridotte a poche centinaia di persone ha rischiato di essere la fine.

Le motivazioni

Ha ottenuto subito come prevedibile moltissime reazioni, ma, come ormai sappiamo in tanti e per esperienza diretta, le più rumorose sono state quelle denigratorie.

Quando il pregiudizio acceca

Per chi tra noi resiste, con ormai disarmante irrazionalità, ad un presidio medico in grado di ridurre il rischio personale e comunitario di un'infezione che anche da noi ha compiuto stragi, la docilità di questi gruppi amazzonici non può che essere sospetta, spiegabile solo con il plagio.

La storia, invece, è proprio l'opposto: poiché i medici della SESAI avevano già conquistato la loro stima e fiducia e con loro avevano già intrapreso campagne vaccinali "classiche", l'arrivo del primo vaccino disponibile, il Coronavac di produzione cinese, non ha incontrato resistenze, né stupore; piuttosto sollievo e adesione ordinata.

Il virus è un nemico e il vaccino un alleato

Non con tutte le etnie è andata in questo modo, purtroppo:

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