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Come non fare della correzione fraterna un fratricidio

KAIN ZABIJA ABLA

Kain zabija Abla, Abraham Bloemaert (1564-1651), Muzeum Narodowe w Warszawie

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 20/01/22
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Sembrerebbe facile e piacevole, mentre è tra i più gravosi e difficili comandi di Cristo: non a caso, per la sua ineluttabilità e per quella fatale tendenza a diventare “deiezione fraterna”, è stata oggetto di appositi trattati.

Il diciottesimo sermone del Quaresimale di Paolo Segneri, storica gloria della Compagnia di Gesù (e della città di Nettuno), comincia così: 

Il fallimento del migliore amico

Si direbbe che il gesuita sarebbe stato d’accordo col cantautore genovese, e in un certo senso a tutti noi sembra di esserlo con entrambi… salvo che il famoso predicatore accenna al paradossale amore degli uomini per la “deiezione fraterna”, più che per la correzione fraterna. E lo si capisce, se ci guardiamo onestamente nel cuore: correggere veramente qualcuno significa aiutarlo a diventare migliore di com’è, quindi forse anche migliore di noi, laddove in realtà ci basterebbe molto meno di questo per guardarci bene dall’aiutarlo veramente – ci basterebbe che avessimo anche solo la percezione del suo accorciare le distanze nei nostri riguardi, nei riguardi della nostra felicità, della nostra pretesa autorealizzazione. In realtà «nessuno – lo disse da par suo Groucho Marx – è completamente infelice per il fallimento del suo migliore amico». 

Segneri non poteva saperlo, nel XVII secolo, ma la rilevanza morale della “deiezione fraterna” sarebbe cresciuta all’inverosimile con i (cosiddetti) social: i “foglietti segreti” sono diventati le chat, le “conversazioni dimestiche” i thread e il booklet più famoso del mondo è quello dove si va a spiare (e a rubare e/o invidiare) le faces (e le vite) degli altri. Che spazio può esserci, in questa fiera delle vanità, per una merce tanto rara e cara quanto la correzione fraterna? 

Tutto quanto abbiamo appena richiamato ci aiuta a capire perché in passato abbondasse tanta letteratura, in merito alla correzione fraterna, e perché tanto spesso essa sentisse di dover affrontare il problema se davvero la correzione fraterna sia un precetto, ossia se tutti siano tenuti a praticarla.

E lo si può fare? 

È vero, ma trattando di quella particolare correzione fraterna che oggi va di moda chiamare “supplica filiale” san Tommaso redige un articolo ben più articolato e sfumato, il cui cuore resta il respondeo

«Sè, vabbe’… – par di sentire il web editor –: e allora che gusto c’è? Chi ce lo fa fare?». Ottima domanda: chi ce lo fa fare? Tommaso aveva dedicato i primi 2 articoli della medesima quæstio a rispondervi: ce lo fa fare la carità, (se c’è), e l’Angelico aggiunge alla fine del secondo respondeo

Un trattato secentesco sulla correzione fraterna

Appena tre anni prima della pubblicazione della prima edizione del Quaresimale del padre Segneri, ossia nel 1676, l’allora quarantenne gentiluomo francese Trotti de La Chétardie dava alle stampe un accurato pamphlet ascetico-morale che dedica ben 52 capitoli e più di 450 pagine a un “Trattato della correzione fraterna”. Date le premesse che abbiamo addotto, forse non stupirà la prolissità dell’opera, i cui primi capitoli sono appunto dedicati a ribadire quanto sia stringente il comando di praticare questa difficillima missione: motivo di consolante stupore si potrà invece ancora trovare nel fatto che, a distanza di tre secoli e mezzo, queste opere siano sopravvissute alle sabbie del tempo, laddove fatichiamo a rintracciare i “libelli famosi” che sbandieravano Urbi et Orbi i difetti di questi e di quelli. La ragione profonda è che questi opuscoli, per quanto “famosi”, vanno rubricati sotto la voce “pettegolezzi”, mentre quelle opere, benché meno “di grido”, trattano una materia che riguarda l’uomo di ogni epoca e latitudine. 

E rifacendosi ad Agostino aggiunge: 

Sant’Agostino, san Gregorio Magno e Ugo di San Vittore 

Poche pagine più in là, La Chétardie richiama un paio di notevoli raccomandazioni del Doctor Gratiæ

L’excursus patristico di La Chétardie prosegue nel capitolo XVI, nel quale si legge: 

La discendenza dei figli di Caino 

Temperare dolcezza e severità sembra essere la chiave della correzione fraterna che i grandi maestri dello spirito unanimemente porgono a chi la cerca: essa però non è questione di “cosa fare” o di “cosa dire”, perché è sempre a questo proposito che Cristo obiettò “la bocca parla dalla pienezza del cuore” (Lc 6,45); non si può, cioè, simulare a lungo una disposizione che non si ha, e non la si può avere senza essere in comunione con il Messia, il quale solo conosce e trasforma i cuori. 

«Se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello» (Mt 18,15), dice il Cristo, e segretamente noi chiosiamo: «Ma tanto non mi ascolterà… speriamo [che non mi ascolti]!». C’inganniamo sul senso delle parole trasmesse da Matteo: “avrai guadagnato il tuo fratello” non significa “avrai fatto un buon lavoro”, ma “avrai una responsabilità in più”. E a questo punto sentiamo un brivido sibilante lungo la schiena: «Vuoi rispondere di tuo fratello? Parla, figlio di Caino: dov’è tuo fratello?». Nessuno di noi – nessun uomo – è discendente di Abele. L’unico Innocente di cui, se accogliamo la sua Grazia, possiamo essere discendenza, è l’Abele «dal sangue che parla meglio» (Eb 12,24) di quello antico, perché non chiede la vendetta sul fratricida ma il perdono. Ci vuoi entrare, nella “compagnia dell’Agnello”? Veramente?

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